mercoledì 9 luglio 2008

Un niente, uno scintillìo, che poveva essere l’occhio di una vecchia, vestita di nero, o il bagliore di un grano del suo rosario.






Intanto, raschiavamo il fondo delle valigie sull’asfalto, salendo verso la chiesa. Mi voltavo di tanto in tanto, con gli occhi bruciati dal sudore, per vedere se la stazione si allontanava abbastanza in fretta. La tenda di strisce di plastica colorata ondeggiava come se qualcuno l’avesse appena attraversata, e non era vero mai.

Ci sfilavano affianco le finestre, una dietro l’altra. Le persiane, a strisce verdi e buio, nascondevano sospiri trattenuti e occhi come periscopi. Ogni tanto ti sembrava di intravedere un niente, uno scintillìo, che poveva essere l’occhio di una vecchia, vestita di nero, o il bagliore di un grano del suo rosario.

Ai muri delle case, poster che sembravano non essere mai stati nuovi e appena messi, ma solo e da sempre vecchi, sparati dal sole, stracciati, a strati, l’uno sull’altro, a comporre poster sempre nuovi, collage: circo Ba../vota.. /Birr..Ichnus../si ringraz.../trigesim..../Pupo in concert.....

Non c’era rumore di uccelli, nessuna automobile in movimento. Niente vento. Solo, lontano, il vago rumore dell’acqua che, se ti concentravi,  scendeva nelle vasche del lavatoio comunale o in quella dell’abbeveratoio, o che scorreva come un rigagnolo nel fiume quasi in secca, che chissà perchè lo chiamavano “Su-ma-ttó-ne”, e un giorno l’avrei capito.

Solo quel rumore rinfrescava quel sole cattivo, mentre le cose si muovevano in un sogno bollente, galleggiando sopra l’asfalto, che non era duro, a quell’ora.

Eravamo in tre. Mia mamma, mia sorella, e me, che è sbagliato, ma suona meglio col tre.

giovedì 3 luglio 2008

A.C. ed il pane quotidiano.


Il Cavaliere si sedette quel giorno, come mille altri, a mezzodí, alla tavola apparecchiata solo per lui. Versó il vino, un bicchiere, bianco. Prese il suo coltello, una piccola “pattadese” col manico di corno. Sollevó la forchetta dal tovagliolo candido, fece scattare a serramanico entrambi gli avambracci, di niente, di quel tanto appena che gli consentisse di far arretrare le maniche della giacca solo quel tanto che gli evitava di sporcarsele col bordo del piatto.

Con uno scintillío improvviso, nel grosso anello d’oro, le sue iniziali: A.C.

Avanti Cristo.

Inizió a mangiare.

La luce della finestra che dava sulla strada, penetrava la bottiglia del vino rendendola fosforescente.

In quel momento entró Virginia, zoppicando, nella cucina.

I suoi passi facevano rumore di legno

bello-e caldo-e stagionato. Come i mestoli che usava per fare il sugo.

Il masticare di A.C. faceva rumore di passi nel fango.

 

Il campanello risuonó per tutte le stanze della casa come le fitte di una pugnalata fredda e improvvisa.

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