Intanto, raschiavamo il fondo delle valigie sull’asfalto, salendo verso la chiesa. Mi voltavo di tanto in tanto, con gli occhi bruciati dal sudore, per vedere se la stazione si allontanava abbastanza in fretta. La tenda di strisce di plastica colorata ondeggiava come se qualcuno l’avesse appena attraversata, e non era vero mai.
Ci sfilavano affianco le finestre, una dietro l’altra. Le persiane, a strisce verdi e buio, nascondevano sospiri trattenuti e occhi come periscopi. Ogni tanto ti sembrava di intravedere un niente, uno scintillìo, che poveva essere l’occhio di una vecchia, vestita di nero, o il bagliore di un grano del suo rosario.
Ai muri delle case, poster che sembravano non essere mai stati nuovi e appena messi, ma solo e da sempre vecchi, sparati dal sole, stracciati, a strati, l’uno sull’altro, a comporre poster sempre nuovi, collage: circo Ba../vota.. /Birr..Ichnus../si ringraz.../trigesim..../Pupo in concert.....
Non c’era rumore di uccelli, nessuna automobile in movimento. Niente vento. Solo, lontano, il vago rumore dell’acqua che, se ti concentravi, scendeva nelle vasche del lavatoio comunale o in quella dell’abbeveratoio, o che scorreva come un rigagnolo nel fiume quasi in secca, che chissà perchè lo chiamavano “Su-ma-ttó-ne”, e un giorno l’avrei capito.
Solo quel rumore rinfrescava quel sole cattivo, mentre le cose si muovevano in un sogno bollente, galleggiando sopra l’asfalto, che non era duro, a quell’ora.
Eravamo in tre. Mia mamma, mia sorella, e me, che è sbagliato, ma suona meglio col tre.