venerdì 28 novembre 2008

IL GIARDINO DELLE LUMACHE


Era davanti alla casa di Rò, il giardino delle lumache. Si apriva su un marciapiede vecchio e disastrato, i cui bordi erano sollevati per forza dalle radici dell'indivia e della bietola selvatica che spuntavano persino nelle crepe dell'asfalto vecchio.
Da una parte, il muro di cantoni bianchi della casa di Zia Marilena. 
Dall'altra, la casa del dentista, l'unica casa a tre piani del paese "di sù". 
In fondo, un altro muro, alto, anche questo di cantoni bianchi, separava il giardino dal mondo di fuori: il paese davvero, quello arroventato e cattivo, che esisteva solo come tragitto e sembrava pieno di cose che preferivi non sapere.
Ma il giardino delle lumache era diverso. Da sotto gli alberi di Zia Marilena cadevano fichi che potevi mangiare, lucertole e gechi, di notte, non mancavano per la caccia. Gli arbusti secchi del finocchio selvatico erano di gran lunga più alti di noi e fra i loro ombrelli di paglia così vicini a casa, e così lontani da tutto, ci nascondevamo noi: altrove.
Ma non al sicuro. E lo sentivi in mille sinistri rumori, il pericolo. Potevi sollevare un sasso  e sentirti la mano percorsa da "su tiligúgu", che ti attraversava freddo il dorso della mano, con le sue zampette viscide di nera lucertola monca, oppure una colonia di "carabinieri" o ragnetti appena nati che si disperdevano a velocità della luce appena vedevano il sole. Sotto un ombrello di finocchietto, o un mezzo teschio di pecora che sembrava un sasso bianco potevi trovarci un vespaio. Potevi raccogliere una lumaca e trovarla abitata da una larva schifosa. 
E l'odore di incendi vecchi ti ricordava che tutto il giardino poteva prendere fuoco in un momento. Perchè erano secchi secchi, gli arbusti delle lumache, e così infiammabili, che i loro fusti ci insegnarono a fumare, nascosti fra le palme nane e le montagne di ghiaia delle case della cooperativa in costruzione.
Era piccolo, il giardino delle lumache, ma era tutta la libertà che potevamo avere gratis, e tutto il pericolo che potevamo correre, perchè nessuno sembrava volerci andare. C'eravamo noi, nella giungla secca, nel deserto, nascosti dove tutti sapevano di poterci trovare: Zia Marilena che ancora aspettava il colonnello, Zia Annetta coi cardellini fuori dall'uscio, Zia Sannina la madre di Rò, nonna Virginia, il suo battipanni, mamma, e persino la Pentax di A.C., appostata alla finestra del piano di sù per vedere, prima o poi, qualcosa che agli altri non fosse dato di  vedere, nel Giardino delle Lumache.

lunedì 24 novembre 2008

Non fosse stato per la spatola di Ciccittu, che chiudeva la porta a Dalia Maria.


Al funerale A.C. ci era arrivato in macchina, con Tatano.

Virginia zoppicando, insieme alla madre di Rò.

 Dalia Maria se ne andava come una regina.

 Il corteo partiva dalla piazza, percorreva tutta la via principale per arrivare fino quasi alla stazione, poi si dirigeva verso gli uliveti e le vigne, che erano lì per far compagnia ai morti.

Il capostazione aveva chiesto permesso e affidato il comando a Giustina la casellante; Santini non visitò Zio Luigi Canedda, che aveva la tosse.

Percopo era già al cimitero, con gli zoccoli della domenica e dei fiori in mano. Qualcuno rise.

Qualcun altro sputò per terra.

Rocco Berdui tratteneva a stento la moglie, che si strappava i capelli, cercandovi sotto la vita di Dalia Maria, con gli altri figli rotti, ai suoi piedi.

Tre o quattro ragazzi ridevano di nascosto.

Tommaso parlava all’orecchio di A.C., che iniziò a fotografare tutto, da lontano, piegando le ginocchia.

Dalla finestra vidi Dalia Maria che lasciava la piazza, e pensavo che ora

non l’avrei rivista mai più,

e che chissà se si sentiva sola  e dispiaceva anche a lei.

Rocco Berdui tratteneva a stento la moglie, che si strappava i capelli, cercandovi sotto la vita di Dalia Maria, con gli altri figli rotti, ai suoi piedi.

 A.C. scattava, da sotto il suo borsalino, e scattava.

Non sudava mai,

non sbagliava mai.

 Al terzo scatto Rocco si voltò.

 Nonno lasciò piano la Pentax a pendere

dal collo.

 Tommaso li guardò entrambi, asciugando il sudore

sotto il cappello della divisa buona.

 I campanelli delle pecore sul monte

li avrebbero sentiti anche i morti

non fosse stato per la spatola di Ciccittu,

che chiudeva la porta a Dalia Maria.

giovedì 13 novembre 2008

Così disse il Dottor Santini a Tommaso, terminati gli accertamenti del caso.


Tommaso si sfiorò il volto col palmo della mano. Uhmmm. Barba lunga. E fra 20 minuti montava di servizio. Sentì tuonare e si affacciò alla finestra.  Da lì si vedeva la Via Seduta. Si voltò verso la porta, dove Alina gli stirava la giacca, sudando mentre cercava di non rovinargli le mostrine dorate. Lei non si accorse di essere osservata e lui, senza dir niente si voltò di nuovo verso la finestra.
Si erano conosciuti in continente, a Firenze. Perchè lei era di Firenze e lui, soldato. Poi la guerra era finita.

Le prime gocce iniziarono a bagnare il davanzale. Mentre Tommaso iniziava a radersi, Alina compose bene la giacca sullo schienale di una sedia e prese la camicia, per stirare anche quella. Ma prima sollevò lo sguardo e lo osservò.
La prima volta che lo vide, lui aiutava la gente  a tirar fuori i familiari dalle macerie. Aveva tutta la faccia sporca di calce. Sembrava un fantasma. Ma un fantasma bello, e generoso. Per questo lo seguì, dopo il bombardamento.

Il mare era brutto. Sul traghetto gli rubarono il corredo, e tutto il resto.
Ma aveva Tommmaso, e questo bastava.

La Via Seduta fu la prima cosa che vide del paese. Arrivarono di notte e dormirono su materassi nudi, coi soprabiti addosso. Quando si svegliarono era già giorno pieno. Alina aprì la finestra per fare entrare l'aria. Tommaso abbassò lo sguardo. Alina stette immobile guardando in strada,  contro la luce forte che entrava dalla finestra. Poi si voltò e guardò Tommaso, con lacrime mal trattenute.
"Se vuoi, ti riaccompagno a Firenze." disse Tommaso "Lo capisco."
Alina si asciugò il volto. "Bisogna comprare lenzuola." Disse, mentre si tirava sù le maniche della camicia.
Gli accarezzò il viso cercando di sorridergli, mentre usciva dalla stanza.  Tommaso allora si affacciò. Sulla Via Seduta le donne stavano sul selciato, con la schiena poggiata ai muri sconciati delle loro case povere nella via più povera del paese, sporche, pallide, febbricitanti. I bambini che stavano bene piangevano. Gli altri si guardavano la pancia vuota con gli occhi fissi. C'erano solo due vecchi e due uomini adulti sulla Via Seduta. Uno di loro sbatteva i denti forte. L'altro era il dottore. Tommaso lo salutò con un cenno del capo.

Ora guardava fuori dalla stessa finestra mentre si insaponava il volto per il contropelo.
Era iniziato il Diluvio  Universale.

L'acqua iniziò a scorrere per le strade larghe e in lieve pendenza. Da ogni stradina arrivava un torrente che si univa al fiume della Via Centrale, che scendeva fino a biforcarsi: un ramo verso la stazione, l'altro verso il cimitero.

Sul Monte Corbu, la diga del piccolo invaso che serviva per irrigare gli orti e le vigne della pianura, tracimò. Una gran massa d'acqua si riversò nel Rio Minore.
Fu allora che Dalia Maria, iniziò a viaggiare col fiume.
I suoi occhi vedevano le nuvole, o forse non le vedevano già più.

Così disse il Dottor Santini a Tommaso, terminati gli accertamenti del caso. 




mercoledì 12 novembre 2008

Dalia Maria viaggiando nel fiume


Quando la videro arrivare in piazza, credettero tutti di sognare. 
Lei era così,  in mezzo ai rami, al fango e all'immondizia portata dalle strade in piena. 
C'era un uccellino morto con tutte le piume inzuppate e le zampette contratte, un giornale fradicio con la foto di un papa in carica, cicche di sigarette, pacchetti di nazionali senza filtro, milioni di foglie cadute dagli olmi malati della piazza, ratti affogati e, in mezzo, una maglietta del Milan fradicia, sollevata appena,  beffarda, su uno dei suoi seni appena nati. Gli occhi di vetro, aperti, i calzoncini corti trasparenti, una scarpetta da calcio, in un piede, le dita stirate in avanti, nell'altro. I suoi capelli, come alghe, sparsi per il viso e sull'asfalto bagnato. Le labbra.


C'era odore di terra bagnata e aveva smesso di piovere.  

Finalmente.

Il sole li prese tutti a schiaffi per farli svegliare.

Augusto andò a chiamare i carabinieri.

martedì 11 novembre 2008

Il campanello risuonó per tutte le stanze della casa come le fitte di una pugnalata fredda e improvvisa.


Ad A.C. si fermó il boccone in bocca. Virginia respirò per un momento un'aria che non seppe di fango: Costanza! Si diresse a grossi passi traballanti verso il portone, attraversando il corridoio scuro. Al muro si susseguivano foto antiche e accartocciate per l'umidità, scattate da A.C. appena l'anno prima. Una mattonella dopo l'altra. Un tacco qui, il bastone lì. 
A.C. si pulì i baffetti col tovagliolo candido e profumato che gli era riservato. 
Il suo anello brillò ancora una volta mentre beveva, in piedi, l'ultimo goccio di bianco di cantina. Sentí le ciabatte di Virginia fermarsi davanti al portone. Poi si ripulì di nuovo i baffetti bianchi. Andó verso la TV, nel salotto. Una mattonella dopo l'altra. 
Il bastone qui, un tacco lì. Virginia afferrò il pomello del passante. Tirò forte. Costanz....

"Bu-buo-ongiorno signora Vi -iirginia, co--ome sta?"
"Percopo, cosa vuoi qui?"

Si sentiva odore di carogna.

"u-una ragazza bella t....tii-ira il pallone, Signora Virginia. Tira il pallone."
Percopo sudava. I suoi occhietti sornioni stavolta erano seri, quasi spaventati.

Almeno così mi parve quando lo vidi al girare l'angolo di casa. Quello di nonna quando ci vide non fu un sorriso semplice.

"Vattene via adesso Percopo. Sció, vai via. Vai dalla ragazza che tira il pallone, và."

Non avevo mai visto Percopo così. Si girò verso di noi "Ciao Costanza" fece con la mano. Poi si allontanó con le spalle basse, coi suoi zoccoli del Dottor Sholl's che lo precedevano di un passo o due. 

La serranda di ferro del garage sferragliava per le zampate di Lola, che si era accorta del nostro arrivo. 

Percopo si fermò davanti agli arbusti delle lumachine. Si sedette sul bordo sbeccato del marciapiede. Si portò le mani alla testa. E iniziò a piangere.

L'odore delle nuvole sapeva di pioggia in arrivo.

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