mercoledì 24 dicembre 2008

Il Natale di Celestina


Il 20 Luglio del 69’ Zia Celestina Berdui tornò a casa tardi. Chiccaffóra, il bastardino che le faceva da guardiano, la rimproverò preoccupato. Poi si sedette accanto al barattolo di pelati che gli faceva da mangiatoia, in attesa della cena.
Coi suoi occhietti acquamarina (perchè per questo la chiamavano Celestina, chè il suo nome vero era Gesuina) guardò verso le povere foglie bucherellate della vite del pergolato.

Anche oggi il suo cesto delle lumache era arrivato quasi vuoto al Monte Rosso. Anche oggi avrebbe versato le poche lumache invendute dentro le reti per le patate e avrebbe appeso queste ultime ai grossi chiodi infissi nel muro della casa, tra la porta d’ingresso e quella dello sgabuzzino in cui conservava gli attrezzi per l’orto e tutti gli oggetti utili che trovava fra il paese, l’immondezzaio comunale e il passaggio a livello di Monte Leppere. Anche oggi tre o quattro “gioghittas” le sarebbero cadute, e lei non se ne sarebbe accorta, perchè a novant’anni l’udito non fa più il suo lavoro. Le tre o quattro amiche avrebbero trasportato pian piano le loro case ambulanti lungo quei tronchi contorti a spirale che iniziavano agli angoli della casa e al fianco delle due porte, e avrebbero raggiunto le evase degli ultimi anni, lassù, ad aspettare l’uva matura.

Lassù guardava, Zia Celestina, coi suoi occhi da falchetto, mentre le rughe della fronte si distendevano e scendeva il numero degli anni e il peso della rabbia. Lassù vedeva i mille bagliori che le bave delle lumache facevano per la luce della luna, confondersi con le stelle e le lucciole in un balletto di scintille e stelle cadenti.

E pensò che era giusto che quelle lumache se ne stessero lì per sempre, a mangiarsi le foglie di vite, perchè avevano saputo scappare e se l’erano meritata, la cena e la libertà.
A volte pensava di essere essa stessa una di loro e si chiedeva se era giusto catturarle e venderle ai pentoloni bollenti delle paesane. Poi però entrava in casa, disfava il mogno che le raccoglieva sommariamente i capelli fra il bianco e il paglierino, piegava i vestiti neri dell’ineluttabile e li riponeva accuratamente su una sedia di paglia. Poi contava i soldi, li raccoglieva in un rotolo che teneva legato con un filo di raffia, spingeva il letto contro il muro, sollevava la mattonella su cui poggiava la gamba zoppa del letto, estraeva da un grosso buco un sacco di plastica nera della spazzatura, e metteva il rotolo in compagnia, col resto della dote per Dalia Maria.

“ Che razza di freddo” Pensò... “Per essere Luglio...tittìa...”

La foto di Amedeo, l’addestratore di cavalli, l’uomo d’un pezzo, il baffo severo, il marito, il traditore, la fissava da dietro il fumo freddo che le usciva dalla bocca sdentata.

“Bonanotte Amedè” Disse con gli occhi.

E si mise a letto.

Ma non riusciva a dormire. Le scie delle lumache non erano più scintille di luna, ma fruscii, rumori, movimenti, gente, folletti, fate. Cercò di respingere l’idea e si fece un giro di rosario, poi un altro. Niente.

Allora

Zia Celestina

si alza dal letto.

Veste il cappotto della domenica di quando c’era Amedeo, saluta Chiccaffòra, e s’incammina verso il paese.

C’è un vento che taglia a fette le mani, e lei le nasconde sotto le ascelle. Si avvolge su muncaloru bene bene intorno alle guance, e aumenta il passo.

Qualche fiocco di neve inizia a scender giù.

Zia Celestina inizia a vedere le luci della chiesa e pensa “Lo dicevo, io.”

Dalla chiesa di Santa Maria le voci dei paesani arrivano nitide e argentine.
Es nadu es nadu es nadu...

Entra in chiesa Zia Celestina, si fa il segno della croce, si inginocchia al centro del corridoio di fronte all’altare, appena un istante, un accenno. Poi si siede accanto a Zia Peppina Masìa.

“Maleducata che non è altra. Non gliel’hanno insegnato a salutare?”
“E quello, Zuanne Banderi, dice che se n’era andato, e guardalo lì, tronfio e impettito, sfoggiando soldi in forma di cravatta di seta”

“Buonasera bà...ma nemmeno tu saluti?”

“Troppo me ne sto da sola, non mi riconoscono più” Pensa, mentre si guarda in torno e ci sono tutti, ma proprio tutti. “Però... quando vogliono lumachine già mi riconoscono...cani, che sono!”

Dalia Maria è con Enedina che guarda il Presepio. Celestina fruga nella tasca del grembiule. “Ci sono, eccoli lì, in fondo alla tasca. Cento lire per il prete e cento per Dalia Maria. Enedina non ne ha bisogno, è piccola ancora...poi si monta la testa se vede soldi...”
Un sorriso riscalda Celestina che pregusta il gesto.

Ma “la messa è finita” e “andate in pace”.

Tutti si incamminano lentamente verso l’uscita. Fuori nevica zucchero a velo.
Una lunga colonna percorre tutta la discesa della Via di Chiesa, in un silenzio appena modulato dai mormorii di questo e di quello.

Totore Arcobaleno spara i petardi per l’uscita dalla messa
scoppi che fanno silenzio.

Notte de chelu.

“Ma tutti insieme vanno?”

Celestina segue il corteo che sembra una processione. C’è anche Don Loddo che porta la croce.

Il tetto della stazione è già tutto bianco, là in fondo alla discesa.

Il capostazione sembra Amedeo, con quei baffoni. Fa la riverenza quando passa Celestina e la lascia passare.

Nella banchina ci sono tutti, quelli che ci sono, e quelli che non più.

“Ma perchè stanno tutti zitti...taddannu...che paese di gente strana è diventato...”

Allora, siccome tanto sono tutti alla stazione del treno, ormai, Celestina fa come sempre e si sporge un poco verso il mare, e così vede il pennacchio di fumo bianco.
“Mì...Arrivando sta.”

Il treno fischia silenzio fortissimo. Si ferma. Dentro è tutto illuminato. Ci sono Lidia, Giovanna e l’altra sorella Tatana, c’è il povero Don Zulueddu che se n’era andato in Argentina a cercare la figlia segreta, e c’è Pedro, lo spagnolo, che il camion se l’era portato via sulla strada per Su Mattone. Tutti, ci sono.

Zia Celestina si guarda intorno. Ora tutti le sorridono sulla banchina, mentre la neve gioca coi cappotti e le chiome degli alberi e il cappello rosso del capostazione.

“E che cosa sta succedendo?”

Zia Maria Dureddu, vestita a fiori e col sorriso splendente la guarda affettuosa “Vada Zia Celestì...” e accompagna la frase con un movimento del braccio.
“Vada, vada” Dice Don Loddo “ Vada in buon’ora”
Celestina si guarda intorno. Tutti le sorridono, o quasi. Qualcuno si commuove.
Intanto si fa giorno, piano piano.
“Ma cos’è che vogliono?”
“Guardi Zia Celestì”
E Celestina guarda verso la porta del treno, che si apre.

“Ih...che bello che sei, Amedè.”

E lui è lì, con un mazzetto di fiori e i denti bianchi di sotto i baffoni e la mano tesa che la invita a salire.

“Vada, Zia Celestì,...aiò...vada...”

Allora Celestina si solleva un poco la lunga gonna nera, si guarda un attimo indietro, sorride incredula, e sale, con la pelle del viso come la buccia di una pesca e gli occhi come gioielli.

La stazione si allontana dietro i fiocchi di neve che ora scendono fitti.

Sul tetto del treno le lumache di Zia Celestina piegano al vento le loro antenne.

Addìo Monte Rosso, addìo pergola delle viti, addio Chiccaffò...
le lumache di Zia Celestina se ne tornano insieme alle stelle.


venerdì 19 dicembre 2008

Andiamo a dormire Adelì.


"Tre, quattro ore prima che iniziasse a piovere."

Tommaso tornava a casa da Adelina con questa frase che gli volava dentro la testa come un brutto sogno. 

"Tre, quattro ore prima che iniziasse a piovere."

La scarpetta che avevano trovato addosso a Dalia Maria si era ristretta un poco, e quel cartone che voleva essere cuoio si era addirittura sfaldato, asciugandosi. Ma l'altra,  quella che la bambina morditrice gli aveva consegnato di malavoglia, era perfetta. Un pò sporca della terra di Zia Marilena, ma perfetta. Per quello Tommaso era andato da Santini.

"Tre, quattro ore prima che iniziasse a piovere." Gli aveva risposto.

Dalia Maria era annegata, sì, ma non nel fiume, e non durante l'acquazzone.

Quando Adelina gli chiese com'era andata con Santini, Tommaso fu evasivo, ma l'alito arrivava con profumo di aquavite e tabacco. 
Come quella volta che Maria Pintore aveva finito per perdere il bambino e la vita per i calci del marito e nè Tommaso, nè Santini erano arrivati in tempo.

"Perchè non te l'ha detto prima?"

"Voleva essere sicuro."

"E com'è successo?"

Tommaso posò la scarpetta di Dalia Maria sul tavolo di cucina,  e la salutò in silenzio, come si saluta chi parte per sempre. Poi spense la luce.

"Andiamo a dormire Adelì."



giovedì 11 dicembre 2008

Così, mentre noi rincasavamo, quella notte fece visita a Santini.


Il povero grillo stava a pancia aperta fra le dita di Frà, che era seduta sul gradino più alto, della casa di Rò. 
Lei lo guardava, silenziosa, estraendo con un ago le sue uova arancioni.
"Era una vecchia" disse "che vendeva le lumache."
"Chi?"
"Celestina."
"E smettila con quel grillo!"
Rò era sempre risoluta e quelle porcherie non le piacevano molto.
"E chi era questa Celestina?" Incalzai.
"Era una vecchia pazza e sola che abitava nella casa di Monte Rosso."
"Va bene, ma che c'entra?"
Rò si aggiustò il vestitino a fiori grandi sotto il sedere. Un venticello freddo aveva iniziato a far ballare le foglie del nespolo dietro il muro di cinta.
"Dicono che adesso nella casa di Celestina certe volte si sente piangere qualcuno."
"Smettetela! Aiò, che ho paura!" 
Chì aveva lasciato Stella da sola su un gradino a giocare a quel gioco che si tirano le pietre in aria e bisogna riprenderle tutte al volo.
"Ci andiamo un giorno?"
Rò ci mise un pò a intervenire.
"Ma matti siete?! Che paura. Io non ci vengo."
"Aiò, Rò! Ci andiamo?" Disse Chì.
Stella le si avvicinò per darle il suo appoggio.
"Aiò, smettetela...la tudda mi state facendo venire" disse Rò fregandosi le braccia per il freddo (ci misi un pò a capire che la tudda era la pelle d'oca).

"Invece ci andiamo."
Stella non dubitava mai. Per lei era sempre sì, o no. Cocciuta come un asino.
A mamma le era costato un pomeriggio convincerla a dirle dove aveva nascosto la scarpetta da calcio di Dalia Maria che aveva trovato da Zia Marilena. E a Tommaso il carabiniere gli aveva assestato un morso in pancia che lui ancora se lo ricorda a malavoglia quando si guarda allo specchio, pure adesso che è vecchio.

Dalia Maria compiva 13 anni, il giorno dell'acquazzone, e a Tommaso non andò giù proprio
che avesse dovuto riunirsi tanto presto
a nonna Celestina.

Così, mentre noi rincasavamo,
quella notte fece visita a Santini.

Ma fu Percopo a incontrarlo per primo
sulla strada per la Fontana.




mercoledì 10 dicembre 2008

Virginia aveva finito il solitario.


"Tu resti tutto il tempo che ti pare"

 Virginia faceva un solitario, sbattendo le carte al tavolo, contro quel nemico immaginario che aveva davanti per non mettersi a barare. S'incazzava anche, Virginia, con quel nemico immaginario.

 "Adesso te ne stai in vacanza e poi vedi cosa fare."

 Costanza faceva di sì con la testa e continuava a lavare i piatti.

 "Tieni"

 Virginia aveva finito il solitario.

 Nelle mani di Costanza un rotolino di banconote si bagnava di detersivo.

 “E questi?”

 "Ho vinto. Adesso te ne stai in vacanza. Poi vedi cosa fare."

 Seduto nella poltrona del Re, davanti alla sua televisione, A.C. sentì arrivare la moglie a rovinargli il Rischiatutto.

Chissà come veniva, la foto di Sabina Ciuffini.

Quella delle Kessler era perfetta.

Rinchiuse la macchina dentro la sua custodia.

La musica del Rischiatutto, a Costanza, faceva venire in mente dei pesci rossi,

e Stella che piangeva.


Sulle scale della casa di Rò

ci raccontavamo storie

per farci paura.


lunedì 1 dicembre 2008

Al passaggio al livello,Giustina copriva il passaggio dell'ultimo treno che tornava dal mare.


"Venite , venite, come sta mamma eh? Bene? Eh?"
Da Zia Marilena ci andavamo spesso. Mica solo per le caramelle Rossana, che manco mi piacevano, o per le noccioline che tirava fuori dal cassetto della cucina, no,... era perchè nel salotto ci aveva il coccodrillo e le uova di struzzo. E le foto del Colonnello. 
Il marito di Zia Marilena era partito per la guerra e non era ancora tornato. Almeno così diceva lei. Aveva un cappello da alpino e una mantella sulle spalle. Due baffi grossi col riccio in sù, un'espressione fiera e gli occhi spiritati che sembravano aggiunti a mano. Chissà che ci faceva in Africa, con quel cappello lì. 
Aveva anche due medaglie, il Colonnello.  C'erano nella foto, e c'erano pure su un pannello di velluto sopra il mobile del salone. Come ci fossero arrivate non si sa, perchè il colonnello non era ancora tornato.
"Volete andare a giocare in cortile? Eh?" "Andate, sì..., bene...ma mamma lo sa? Eh??"
Mamma lo sapeva, e così stavamo sotto i limoni da un'ora e qualcosa quando venne a riprenderci. La vedevo  attraverso la finestrella che dava sul bagnetto. Da lì, attraverso la porta aperta, si vedeva l'ingresso.
"Entra Costà, entra,...dai che ti bevi un Vov! Eh?"  "No Zia Marilè, che ci sta aspettando mamma per la cena...un'altra volta". Dietro, in strada, gli altri bambini correvano, qualcuno passava in bicicletta. Si sentivano le rondini gridare mentre impazzavano come caccia sui moscerini. Si sentiva una corda sbattere sulla strada e una cantilena.
Si sentiva anche la voce di mamma che ci chiamava e quella di Zia Marilena che continuava a offrirle il Vov "anche se non è come quello che faceva il colonnello, eh? Costà, quello era un'altra cosa, te lo ricordi?."
Prima di rientrare in casa, vidi un ultimo raggio di sole sparire dietro il muro di cantoni.
"Stella..aiò...mì che mamma si arrabbia". Stella smise di armeggiare con qualcosa che aveva trovato per terra sotto l' albero grande dei fichi neri di Zia Marilena.
Quando si mise in piedi fece una faccia da pagliaccio.
Era tutta sporca di terra e fichi schiacciati.
Nel piede sinistro una scarpa troppo grande e con due strisce ai lati.
Gonfiò il petto, tirò sù la sua faccina-capelli corti-niente denti davanti, 
e con le mani ai fianchi ed il piede  puntato disse felice:

"Per giocare a pallone è!!!"

Mamma beveva il suo Vov,
Zia Marilena parlava col Colonnello.

Al passaggio al livello, 
Giustina copriva il passaggio
dell'ultimo treno che tornava dal mare.


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