Coi suoi occhietti acquamarina (perchè per questo la chiamavano Celestina, chè il suo nome vero era Gesuina) guardò verso le povere foglie bucherellate della vite del pergolato.
Anche oggi il suo cesto delle lumache era arrivato quasi vuoto al Monte Rosso. Anche oggi avrebbe versato le poche lumache invendute dentro le reti per le patate e avrebbe appeso queste ultime ai grossi chiodi infissi nel muro della casa, tra la porta d’ingresso e quella dello sgabuzzino in cui conservava gli attrezzi per l’orto e tutti gli oggetti utili che trovava fra il paese, l’immondezzaio comunale e il passaggio a livello di Monte Leppere. Anche oggi tre o quattro “gioghittas” le sarebbero cadute, e lei non se ne sarebbe accorta, perchè a novant’anni l’udito non fa più il suo lavoro. Le tre o quattro amiche avrebbero trasportato pian piano le loro case ambulanti lungo quei tronchi contorti a spirale che iniziavano agli angoli della casa e al fianco delle due porte, e avrebbero raggiunto le evase degli ultimi anni, lassù, ad aspettare l’uva matura.
Lassù guardava, Zia Celestina, coi suoi occhi da falchetto, mentre le rughe della fronte si distendevano e scendeva il numero degli anni e il peso della rabbia. Lassù vedeva i mille bagliori che le bave delle lumache facevano per la luce della luna, confondersi con le stelle e le lucciole in un balletto di scintille e stelle cadenti.
E pensò che era giusto che quelle lumache se ne stessero lì per sempre, a mangiarsi le foglie di vite, perchè avevano saputo scappare e se l’erano meritata, la cena e la libertà.
A volte pensava di essere essa stessa una di loro e si chiedeva se era giusto catturarle e venderle ai pentoloni bollenti delle paesane. Poi però entrava in casa, disfava il mogno che le raccoglieva sommariamente i capelli fra il bianco e il paglierino, piegava i vestiti neri dell’ineluttabile e li riponeva accuratamente su una sedia di paglia. Poi contava i soldi, li raccoglieva in un rotolo che teneva legato con un filo di raffia, spingeva il letto contro il muro, sollevava la mattonella su cui poggiava la gamba zoppa del letto, estraeva da un grosso buco un sacco di plastica nera della spazzatura, e metteva il rotolo in compagnia, col resto della dote per Dalia Maria.
“ Che razza di freddo” Pensò... “Per essere Luglio...tittìa...”
La foto di Amedeo, l’addestratore di cavalli, l’uomo d’un pezzo, il baffo severo, il marito, il traditore, la fissava da dietro il fumo freddo che le usciva dalla bocca sdentata.
“Bonanotte Amedè” Disse con gli occhi.
E si mise a letto.
Ma non riusciva a dormire. Le scie delle lumache non erano più scintille di luna, ma fruscii, rumori, movimenti, gente, folletti, fate. Cercò di respingere l’idea e si fece un giro di rosario, poi un altro. Niente.
Allora
Zia Celestina
si alza dal letto.
Veste il cappotto della domenica di quando c’era Amedeo, saluta Chiccaffòra, e s’incammina verso il paese.
C’è un vento che taglia a fette le mani, e lei le nasconde sotto le ascelle. Si avvolge su muncaloru bene bene intorno alle guance, e aumenta il passo.
Qualche fiocco di neve inizia a scender giù.
Zia Celestina inizia a vedere le luci della chiesa e pensa “Lo dicevo, io.”
Dalla chiesa di Santa Maria le voci dei paesani arrivano nitide e argentine.
Es nadu es nadu es nadu...
Entra in chiesa Zia Celestina, si fa il segno della croce, si inginocchia al centro del corridoio di fronte all’altare, appena un istante, un accenno. Poi si siede accanto a Zia Peppina Masìa.
“Maleducata che non è altra. Non gliel’hanno insegnato a salutare?”
“E quello, Zuanne Banderi, dice che se n’era andato, e guardalo lì, tronfio e impettito, sfoggiando soldi in forma di cravatta di seta”
“Buonasera bà...ma nemmeno tu saluti?”
“Troppo me ne sto da sola, non mi riconoscono più” Pensa, mentre si guarda in torno e ci sono tutti, ma proprio tutti. “Però... quando vogliono lumachine già mi riconoscono...cani, che sono!”
Dalia Maria è con Enedina che guarda il Presepio. Celestina fruga nella tasca del grembiule. “Ci sono, eccoli lì, in fondo alla tasca. Cento lire per il prete e cento per Dalia Maria. Enedina non ne ha bisogno, è piccola ancora...poi si monta la testa se vede soldi...”
Un sorriso riscalda Celestina che pregusta il gesto.
Ma “la messa è finita” e “andate in pace”.
Tutti si incamminano lentamente verso l’uscita. Fuori nevica zucchero a velo.
Una lunga colonna percorre tutta la discesa della Via di Chiesa, in un silenzio appena modulato dai mormorii di questo e di quello.
Totore Arcobaleno spara i petardi per l’uscita dalla messa
scoppi che fanno silenzio.
Notte de chelu.
“Ma tutti insieme vanno?”
Celestina segue il corteo che sembra una processione. C’è anche Don Loddo che porta la croce.
Il tetto della stazione è già tutto bianco, là in fondo alla discesa.
Il capostazione sembra Amedeo, con quei baffoni. Fa la riverenza quando passa Celestina e la lascia passare.
Nella banchina ci sono tutti, quelli che ci sono, e quelli che non più.
“Ma perchè stanno tutti zitti...taddannu...che paese di gente strana è diventato...”
Allora, siccome tanto sono tutti alla stazione del treno, ormai, Celestina fa come sempre e si sporge un poco verso il mare, e così vede il pennacchio di fumo bianco.
“Mì...Arrivando sta.”
Il treno fischia silenzio fortissimo. Si ferma. Dentro è tutto illuminato. Ci sono Lidia, Giovanna e l’altra sorella Tatana, c’è il povero Don Zulueddu che se n’era andato in Argentina a cercare la figlia segreta, e c’è Pedro, lo spagnolo, che il camion se l’era portato via sulla strada per Su Mattone. Tutti, ci sono.
Zia Celestina si guarda intorno. Ora tutti le sorridono sulla banchina, mentre la neve gioca coi cappotti e le chiome degli alberi e il cappello rosso del capostazione.
“E che cosa sta succedendo?”
Zia Maria Dureddu, vestita a fiori e col sorriso splendente la guarda affettuosa “Vada Zia Celestì...” e accompagna la frase con un movimento del braccio.
“Vada, vada” Dice Don Loddo “ Vada in buon’ora”
Celestina si guarda intorno. Tutti le sorridono, o quasi. Qualcuno si commuove.
Intanto si fa giorno, piano piano.
“Ma cos’è che vogliono?”
“Guardi Zia Celestì”
E Celestina guarda verso la porta del treno, che si apre.
“Ih...che bello che sei, Amedè.”
E lui è lì, con un mazzetto di fiori e i denti bianchi di sotto i baffoni e la mano tesa che la invita a salire.
“Vada, Zia Celestì,...aiò...vada...”
Allora Celestina si solleva un poco la lunga gonna nera, si guarda un attimo indietro, sorride incredula, e sale, con la pelle del viso come la buccia di una pesca e gli occhi come gioielli.
La stazione si allontana dietro i fiocchi di neve che ora scendono fitti.
Sul tetto del treno le lumache di Zia Celestina piegano al vento le loro antenne.
Addìo Monte Rosso, addìo pergola delle viti, addio Chiccaffò...
le lumache di Zia Celestina se ne tornano insieme alle stelle.