venerdì 3 aprile 2009

La cicatrice di luce inizió a spegnersi sul volto di Zia Ninetta


Adesso che aveva sul comodino quella scarpetta da calciatore tutta rinsecchita Tommaso non sapeva che cosa fare.
Aveva avuto da subito il sospetto che Dalia Maria, in quel fiume non ci fosse finita da sola. Ora, dopo aver parlato con Santini, ne aveva la certezza. Ma quella scarpa era tutto quello che aveva per darsi una ragione degli avvenimenti.
Che fare? Cercare testimoni. Anzi, per prima cosa recarsi dalla testimone per eccellenza.

"Zia Ninè! Non è che da quei suoi scurini a persiana ha visto qualcuno buttando qualcosa dentro il giardino di Zia Marilena per caso?"
Zia Ninetta lo fece entrare. La casa puzzava di mosto anche se l'ultima vendemmia era passata da nove mesi e ne mancavano ancora 3 alla prossima.
"Costantì! Oh Costantì!"
Nessuna risposta.
"Mì che c'è il maresciallo! Beni!...Si accomodi marescià..."
"Veramente sono appuntato."
Zia Ninetta si avvicinò alla porta, guardò un'altra volta fuori, prima a destra, poi a sinistra, ritirò la gabbietta dei cardellini che era appesa a un chiodo, al sole,  appena sopra la sediola impagliata, che pure ritirò.
"Tittìi!!! Beni!"
 Poi si avvicinò a Tommaso socchiudendo la porta e inchinandosi appena su di lui. 
"Io per vedere, già l'ho visto a qualcuno tirando qualcosa da Zia Marilena..!"
E si zittì, recuperando una posizione perfettamente eretta, con le mani incrociate sul grembiule e lo sguardo solenne perso nel vuoto. 
Allora Tommaso, sottovoce:
"E me lo può dire, per favore, chi ha visto? Sarebbe molto importante per me..."
"Guardi marescià...io non lo so se quella ragazza l'ha ammazzata qualcuno. Però guardi che...cussa pisedda...erba mala era!"
"E che cosa vuol dire Zia Ninè?"
"Niente volevo dire. Quello che ha tirato qualcosa era Percopo...vuole sapere che cosa?"
"Una scarpa"
Zia Ninetta ci rimase un pò male, poi recuperò una certa solennità e assentì col capo, restituendo al nulla il suo sguardo.
"Quella era un maschio...ma masciu malu mì! Però a Percopo già gliela faceva annusare...però."
"Zia Ninè, ma cosa dice?"
"Così è! Cos'è mi sta interrogando o stiamo giocando?! Perchè a giocare...non ne ho più , di tempo."
Un tuono coprì la tosse di Zio Costantino, che spuntava dal buio con una bottiglia di mosto che lui chiamava vino.
La cicatrice di sole iniziò a spegnersi sul volto di Zia Ninetta.
Le prime gocce alzarono profumo di terra. 

E Tommaso immaginò le nuvole di Dalia Maria navigando fra i giunchi.

giovedì 19 marzo 2009

La guerra


La guerra di Dalia Maria l'aveva persa anche lei
tanti anni fa, prima della pioggia.
Per questo volava nella sua testa quella frase di Tommaso
come un brutto sogno
come un passero in cantina
come un palo nella carne.
"Andiamo a dormire Adelì"

sabato 28 febbraio 2009

Rocco Berdui lasciò cadere le monete ad una ad una perchè tutti sentissero che stava pagando.


Nella bottega di Gesulina le tre signore continuarono a bofonchiare chissà che mentre me ne tornavo a casa di A.C. con il pane e la mortadella per i panini.
La piazza era ancora piena di gente, mentre gli ambulanti facevano sparire il mercato . 
Per terra era pieno di carta delle scarpe, briciole, scatole di cartone, bastoncini di ghiacciolo e mozziconi di sigaretta. Sotto l'albero del Tabacchino, i gusci dei semi di zucca di Pedro il pappagallo e il figlio piccolo di Laganó che gridava verso l'albero: "Pedrooo! Oh Pedrooo!"
Come ogni mercoledì,  l'altoparlante del camioncino delle bici aveva strombazzato in lungo il largo che se non avevi la bici non eri proprio nessuno. E infatti eccola lì, la madre di Flavio, ancora con il grembiule, le maniche accartocciate sui gomiti e uno straccio da cucina in mano aspettando il suo turno davanti al furgone per comprargli la bici con i risparmi degli ultimi sei mesi.
Aprii la mano per contare il resto. Due ciungomme, ...ci uscivano. Magari ci trovavo il tatuaggio dell'indiano coi colori di guerra. Deviai verso il Tabacchino.
Da fuori sembrava una casa qualsiasi, non fosse stato per l'insegna TABACCHI, TELEFONO,  e per quella della birra DREHER.
Mi misi in fila dietro il banco dei tabacchi. C'erano le sigarette, le caramelle di zucchero colorato, le mentine, le Dufour, ed anche le ciungomme dei tatuaggi. 
Zio Gavino passava pacchetti di Nazionali  ed MS agli avventori, che sembravano in fila per la comunione.
"Il prossimo?"
Rocco Berdui ci restò di sasso.
"Come il prossimo? Guarda che tocca a me."
"Il prossimo?"
"Aiò Gavì, e dagli le sigarette" Disse Laganò.
"Sigarette per lui non ce n'è"
Chi rideva, e chi abbassava lo sguardo.
Rocco Berdui si voltò verso l'uditorio con un sorriso sarcastico.
Percopo rimase impietrito all'incontare il suo sguardo lucido e marrone.
"Cos'è...? I miei soldi non valgono più?"
Fissò Percopo con cattiveria.
"E dagli le sigarette Cristo!" Ripetè Laganò.
Il pacchetto delle sigarette rimbombó sul banco di legno.
Rocco Berdui lasciò cadere le monete ad una ad una perchè tutti sentissero che stava pagando.
"Ora fuori."
Prima di Rocco era uscito Percopo, di corsa.
"Due ciungomme, per piacere." Dissi.
"Lo sa mamma?"
Mentii.
Zio Gavino  sbattè le gomme con forza sul banco. Silenzio. Poi fece un sorriso.
"Stai lontano da quello lì."
Sollevai le spalle, salutai, ed uscii.
Nella luce accecante dell'una e un quarto vidi Percopo sanguinare dalla fronte.
La mamma di Flavio lo stava portando a casa sua per medicarlo, mentre Laganò spiegava:
"Da solo se l'è fatto!
A testate contro l'albero l'ha presa!"
Flavio si rialzava col ginocchio sbucciato 
e la bici Rossella gialla già tutta ammaccata.



mercoledì 24 dicembre 2008

Il Natale di Celestina


Il 20 Luglio del 69’ Zia Celestina Berdui tornò a casa tardi. Chiccaffóra, il bastardino che le faceva da guardiano, la rimproverò preoccupato. Poi si sedette accanto al barattolo di pelati che gli faceva da mangiatoia, in attesa della cena.
Coi suoi occhietti acquamarina (perchè per questo la chiamavano Celestina, chè il suo nome vero era Gesuina) guardò verso le povere foglie bucherellate della vite del pergolato.

Anche oggi il suo cesto delle lumache era arrivato quasi vuoto al Monte Rosso. Anche oggi avrebbe versato le poche lumache invendute dentro le reti per le patate e avrebbe appeso queste ultime ai grossi chiodi infissi nel muro della casa, tra la porta d’ingresso e quella dello sgabuzzino in cui conservava gli attrezzi per l’orto e tutti gli oggetti utili che trovava fra il paese, l’immondezzaio comunale e il passaggio a livello di Monte Leppere. Anche oggi tre o quattro “gioghittas” le sarebbero cadute, e lei non se ne sarebbe accorta, perchè a novant’anni l’udito non fa più il suo lavoro. Le tre o quattro amiche avrebbero trasportato pian piano le loro case ambulanti lungo quei tronchi contorti a spirale che iniziavano agli angoli della casa e al fianco delle due porte, e avrebbero raggiunto le evase degli ultimi anni, lassù, ad aspettare l’uva matura.

Lassù guardava, Zia Celestina, coi suoi occhi da falchetto, mentre le rughe della fronte si distendevano e scendeva il numero degli anni e il peso della rabbia. Lassù vedeva i mille bagliori che le bave delle lumache facevano per la luce della luna, confondersi con le stelle e le lucciole in un balletto di scintille e stelle cadenti.

E pensò che era giusto che quelle lumache se ne stessero lì per sempre, a mangiarsi le foglie di vite, perchè avevano saputo scappare e se l’erano meritata, la cena e la libertà.
A volte pensava di essere essa stessa una di loro e si chiedeva se era giusto catturarle e venderle ai pentoloni bollenti delle paesane. Poi però entrava in casa, disfava il mogno che le raccoglieva sommariamente i capelli fra il bianco e il paglierino, piegava i vestiti neri dell’ineluttabile e li riponeva accuratamente su una sedia di paglia. Poi contava i soldi, li raccoglieva in un rotolo che teneva legato con un filo di raffia, spingeva il letto contro il muro, sollevava la mattonella su cui poggiava la gamba zoppa del letto, estraeva da un grosso buco un sacco di plastica nera della spazzatura, e metteva il rotolo in compagnia, col resto della dote per Dalia Maria.

“ Che razza di freddo” Pensò... “Per essere Luglio...tittìa...”

La foto di Amedeo, l’addestratore di cavalli, l’uomo d’un pezzo, il baffo severo, il marito, il traditore, la fissava da dietro il fumo freddo che le usciva dalla bocca sdentata.

“Bonanotte Amedè” Disse con gli occhi.

E si mise a letto.

Ma non riusciva a dormire. Le scie delle lumache non erano più scintille di luna, ma fruscii, rumori, movimenti, gente, folletti, fate. Cercò di respingere l’idea e si fece un giro di rosario, poi un altro. Niente.

Allora

Zia Celestina

si alza dal letto.

Veste il cappotto della domenica di quando c’era Amedeo, saluta Chiccaffòra, e s’incammina verso il paese.

C’è un vento che taglia a fette le mani, e lei le nasconde sotto le ascelle. Si avvolge su muncaloru bene bene intorno alle guance, e aumenta il passo.

Qualche fiocco di neve inizia a scender giù.

Zia Celestina inizia a vedere le luci della chiesa e pensa “Lo dicevo, io.”

Dalla chiesa di Santa Maria le voci dei paesani arrivano nitide e argentine.
Es nadu es nadu es nadu...

Entra in chiesa Zia Celestina, si fa il segno della croce, si inginocchia al centro del corridoio di fronte all’altare, appena un istante, un accenno. Poi si siede accanto a Zia Peppina Masìa.

“Maleducata che non è altra. Non gliel’hanno insegnato a salutare?”
“E quello, Zuanne Banderi, dice che se n’era andato, e guardalo lì, tronfio e impettito, sfoggiando soldi in forma di cravatta di seta”

“Buonasera bà...ma nemmeno tu saluti?”

“Troppo me ne sto da sola, non mi riconoscono più” Pensa, mentre si guarda in torno e ci sono tutti, ma proprio tutti. “Però... quando vogliono lumachine già mi riconoscono...cani, che sono!”

Dalia Maria è con Enedina che guarda il Presepio. Celestina fruga nella tasca del grembiule. “Ci sono, eccoli lì, in fondo alla tasca. Cento lire per il prete e cento per Dalia Maria. Enedina non ne ha bisogno, è piccola ancora...poi si monta la testa se vede soldi...”
Un sorriso riscalda Celestina che pregusta il gesto.

Ma “la messa è finita” e “andate in pace”.

Tutti si incamminano lentamente verso l’uscita. Fuori nevica zucchero a velo.
Una lunga colonna percorre tutta la discesa della Via di Chiesa, in un silenzio appena modulato dai mormorii di questo e di quello.

Totore Arcobaleno spara i petardi per l’uscita dalla messa
scoppi che fanno silenzio.

Notte de chelu.

“Ma tutti insieme vanno?”

Celestina segue il corteo che sembra una processione. C’è anche Don Loddo che porta la croce.

Il tetto della stazione è già tutto bianco, là in fondo alla discesa.

Il capostazione sembra Amedeo, con quei baffoni. Fa la riverenza quando passa Celestina e la lascia passare.

Nella banchina ci sono tutti, quelli che ci sono, e quelli che non più.

“Ma perchè stanno tutti zitti...taddannu...che paese di gente strana è diventato...”

Allora, siccome tanto sono tutti alla stazione del treno, ormai, Celestina fa come sempre e si sporge un poco verso il mare, e così vede il pennacchio di fumo bianco.
“Mì...Arrivando sta.”

Il treno fischia silenzio fortissimo. Si ferma. Dentro è tutto illuminato. Ci sono Lidia, Giovanna e l’altra sorella Tatana, c’è il povero Don Zulueddu che se n’era andato in Argentina a cercare la figlia segreta, e c’è Pedro, lo spagnolo, che il camion se l’era portato via sulla strada per Su Mattone. Tutti, ci sono.

Zia Celestina si guarda intorno. Ora tutti le sorridono sulla banchina, mentre la neve gioca coi cappotti e le chiome degli alberi e il cappello rosso del capostazione.

“E che cosa sta succedendo?”

Zia Maria Dureddu, vestita a fiori e col sorriso splendente la guarda affettuosa “Vada Zia Celestì...” e accompagna la frase con un movimento del braccio.
“Vada, vada” Dice Don Loddo “ Vada in buon’ora”
Celestina si guarda intorno. Tutti le sorridono, o quasi. Qualcuno si commuove.
Intanto si fa giorno, piano piano.
“Ma cos’è che vogliono?”
“Guardi Zia Celestì”
E Celestina guarda verso la porta del treno, che si apre.

“Ih...che bello che sei, Amedè.”

E lui è lì, con un mazzetto di fiori e i denti bianchi di sotto i baffoni e la mano tesa che la invita a salire.

“Vada, Zia Celestì,...aiò...vada...”

Allora Celestina si solleva un poco la lunga gonna nera, si guarda un attimo indietro, sorride incredula, e sale, con la pelle del viso come la buccia di una pesca e gli occhi come gioielli.

La stazione si allontana dietro i fiocchi di neve che ora scendono fitti.

Sul tetto del treno le lumache di Zia Celestina piegano al vento le loro antenne.

Addìo Monte Rosso, addìo pergola delle viti, addio Chiccaffò...
le lumache di Zia Celestina se ne tornano insieme alle stelle.


venerdì 19 dicembre 2008

Andiamo a dormire Adelì.


"Tre, quattro ore prima che iniziasse a piovere."

Tommaso tornava a casa da Adelina con questa frase che gli volava dentro la testa come un brutto sogno. 

"Tre, quattro ore prima che iniziasse a piovere."

La scarpetta che avevano trovato addosso a Dalia Maria si era ristretta un poco, e quel cartone che voleva essere cuoio si era addirittura sfaldato, asciugandosi. Ma l'altra,  quella che la bambina morditrice gli aveva consegnato di malavoglia, era perfetta. Un pò sporca della terra di Zia Marilena, ma perfetta. Per quello Tommaso era andato da Santini.

"Tre, quattro ore prima che iniziasse a piovere." Gli aveva risposto.

Dalia Maria era annegata, sì, ma non nel fiume, e non durante l'acquazzone.

Quando Adelina gli chiese com'era andata con Santini, Tommaso fu evasivo, ma l'alito arrivava con profumo di aquavite e tabacco. 
Come quella volta che Maria Pintore aveva finito per perdere il bambino e la vita per i calci del marito e nè Tommaso, nè Santini erano arrivati in tempo.

"Perchè non te l'ha detto prima?"

"Voleva essere sicuro."

"E com'è successo?"

Tommaso posò la scarpetta di Dalia Maria sul tavolo di cucina,  e la salutò in silenzio, come si saluta chi parte per sempre. Poi spense la luce.

"Andiamo a dormire Adelì."



giovedì 11 dicembre 2008

Così, mentre noi rincasavamo, quella notte fece visita a Santini.


Il povero grillo stava a pancia aperta fra le dita di Frà, che era seduta sul gradino più alto, della casa di Rò. 
Lei lo guardava, silenziosa, estraendo con un ago le sue uova arancioni.
"Era una vecchia" disse "che vendeva le lumache."
"Chi?"
"Celestina."
"E smettila con quel grillo!"
Rò era sempre risoluta e quelle porcherie non le piacevano molto.
"E chi era questa Celestina?" Incalzai.
"Era una vecchia pazza e sola che abitava nella casa di Monte Rosso."
"Va bene, ma che c'entra?"
Rò si aggiustò il vestitino a fiori grandi sotto il sedere. Un venticello freddo aveva iniziato a far ballare le foglie del nespolo dietro il muro di cinta.
"Dicono che adesso nella casa di Celestina certe volte si sente piangere qualcuno."
"Smettetela! Aiò, che ho paura!" 
Chì aveva lasciato Stella da sola su un gradino a giocare a quel gioco che si tirano le pietre in aria e bisogna riprenderle tutte al volo.
"Ci andiamo un giorno?"
Rò ci mise un pò a intervenire.
"Ma matti siete?! Che paura. Io non ci vengo."
"Aiò, Rò! Ci andiamo?" Disse Chì.
Stella le si avvicinò per darle il suo appoggio.
"Aiò, smettetela...la tudda mi state facendo venire" disse Rò fregandosi le braccia per il freddo (ci misi un pò a capire che la tudda era la pelle d'oca).

"Invece ci andiamo."
Stella non dubitava mai. Per lei era sempre sì, o no. Cocciuta come un asino.
A mamma le era costato un pomeriggio convincerla a dirle dove aveva nascosto la scarpetta da calcio di Dalia Maria che aveva trovato da Zia Marilena. E a Tommaso il carabiniere gli aveva assestato un morso in pancia che lui ancora se lo ricorda a malavoglia quando si guarda allo specchio, pure adesso che è vecchio.

Dalia Maria compiva 13 anni, il giorno dell'acquazzone, e a Tommaso non andò giù proprio
che avesse dovuto riunirsi tanto presto
a nonna Celestina.

Così, mentre noi rincasavamo,
quella notte fece visita a Santini.

Ma fu Percopo a incontrarlo per primo
sulla strada per la Fontana.




mercoledì 10 dicembre 2008

Virginia aveva finito il solitario.


"Tu resti tutto il tempo che ti pare"

 Virginia faceva un solitario, sbattendo le carte al tavolo, contro quel nemico immaginario che aveva davanti per non mettersi a barare. S'incazzava anche, Virginia, con quel nemico immaginario.

 "Adesso te ne stai in vacanza e poi vedi cosa fare."

 Costanza faceva di sì con la testa e continuava a lavare i piatti.

 "Tieni"

 Virginia aveva finito il solitario.

 Nelle mani di Costanza un rotolino di banconote si bagnava di detersivo.

 “E questi?”

 "Ho vinto. Adesso te ne stai in vacanza. Poi vedi cosa fare."

 Seduto nella poltrona del Re, davanti alla sua televisione, A.C. sentì arrivare la moglie a rovinargli il Rischiatutto.

Chissà come veniva, la foto di Sabina Ciuffini.

Quella delle Kessler era perfetta.

Rinchiuse la macchina dentro la sua custodia.

La musica del Rischiatutto, a Costanza, faceva venire in mente dei pesci rossi,

e Stella che piangeva.


Sulle scale della casa di Rò

ci raccontavamo storie

per farci paura.


lunedì 1 dicembre 2008

Al passaggio al livello,Giustina copriva il passaggio dell'ultimo treno che tornava dal mare.


"Venite , venite, come sta mamma eh? Bene? Eh?"
Da Zia Marilena ci andavamo spesso. Mica solo per le caramelle Rossana, che manco mi piacevano, o per le noccioline che tirava fuori dal cassetto della cucina, no,... era perchè nel salotto ci aveva il coccodrillo e le uova di struzzo. E le foto del Colonnello. 
Il marito di Zia Marilena era partito per la guerra e non era ancora tornato. Almeno così diceva lei. Aveva un cappello da alpino e una mantella sulle spalle. Due baffi grossi col riccio in sù, un'espressione fiera e gli occhi spiritati che sembravano aggiunti a mano. Chissà che ci faceva in Africa, con quel cappello lì. 
Aveva anche due medaglie, il Colonnello.  C'erano nella foto, e c'erano pure su un pannello di velluto sopra il mobile del salone. Come ci fossero arrivate non si sa, perchè il colonnello non era ancora tornato.
"Volete andare a giocare in cortile? Eh?" "Andate, sì..., bene...ma mamma lo sa? Eh??"
Mamma lo sapeva, e così stavamo sotto i limoni da un'ora e qualcosa quando venne a riprenderci. La vedevo  attraverso la finestrella che dava sul bagnetto. Da lì, attraverso la porta aperta, si vedeva l'ingresso.
"Entra Costà, entra,...dai che ti bevi un Vov! Eh?"  "No Zia Marilè, che ci sta aspettando mamma per la cena...un'altra volta". Dietro, in strada, gli altri bambini correvano, qualcuno passava in bicicletta. Si sentivano le rondini gridare mentre impazzavano come caccia sui moscerini. Si sentiva una corda sbattere sulla strada e una cantilena.
Si sentiva anche la voce di mamma che ci chiamava e quella di Zia Marilena che continuava a offrirle il Vov "anche se non è come quello che faceva il colonnello, eh? Costà, quello era un'altra cosa, te lo ricordi?."
Prima di rientrare in casa, vidi un ultimo raggio di sole sparire dietro il muro di cantoni.
"Stella..aiò...mì che mamma si arrabbia". Stella smise di armeggiare con qualcosa che aveva trovato per terra sotto l' albero grande dei fichi neri di Zia Marilena.
Quando si mise in piedi fece una faccia da pagliaccio.
Era tutta sporca di terra e fichi schiacciati.
Nel piede sinistro una scarpa troppo grande e con due strisce ai lati.
Gonfiò il petto, tirò sù la sua faccina-capelli corti-niente denti davanti, 
e con le mani ai fianchi ed il piede  puntato disse felice:

"Per giocare a pallone è!!!"

Mamma beveva il suo Vov,
Zia Marilena parlava col Colonnello.

Al passaggio al livello, 
Giustina copriva il passaggio
dell'ultimo treno che tornava dal mare.


venerdì 28 novembre 2008

IL GIARDINO DELLE LUMACHE


Era davanti alla casa di Rò, il giardino delle lumache. Si apriva su un marciapiede vecchio e disastrato, i cui bordi erano sollevati per forza dalle radici dell'indivia e della bietola selvatica che spuntavano persino nelle crepe dell'asfalto vecchio.
Da una parte, il muro di cantoni bianchi della casa di Zia Marilena. 
Dall'altra, la casa del dentista, l'unica casa a tre piani del paese "di sù". 
In fondo, un altro muro, alto, anche questo di cantoni bianchi, separava il giardino dal mondo di fuori: il paese davvero, quello arroventato e cattivo, che esisteva solo come tragitto e sembrava pieno di cose che preferivi non sapere.
Ma il giardino delle lumache era diverso. Da sotto gli alberi di Zia Marilena cadevano fichi che potevi mangiare, lucertole e gechi, di notte, non mancavano per la caccia. Gli arbusti secchi del finocchio selvatico erano di gran lunga più alti di noi e fra i loro ombrelli di paglia così vicini a casa, e così lontani da tutto, ci nascondevamo noi: altrove.
Ma non al sicuro. E lo sentivi in mille sinistri rumori, il pericolo. Potevi sollevare un sasso  e sentirti la mano percorsa da "su tiligúgu", che ti attraversava freddo il dorso della mano, con le sue zampette viscide di nera lucertola monca, oppure una colonia di "carabinieri" o ragnetti appena nati che si disperdevano a velocità della luce appena vedevano il sole. Sotto un ombrello di finocchietto, o un mezzo teschio di pecora che sembrava un sasso bianco potevi trovarci un vespaio. Potevi raccogliere una lumaca e trovarla abitata da una larva schifosa. 
E l'odore di incendi vecchi ti ricordava che tutto il giardino poteva prendere fuoco in un momento. Perchè erano secchi secchi, gli arbusti delle lumache, e così infiammabili, che i loro fusti ci insegnarono a fumare, nascosti fra le palme nane e le montagne di ghiaia delle case della cooperativa in costruzione.
Era piccolo, il giardino delle lumache, ma era tutta la libertà che potevamo avere gratis, e tutto il pericolo che potevamo correre, perchè nessuno sembrava volerci andare. C'eravamo noi, nella giungla secca, nel deserto, nascosti dove tutti sapevano di poterci trovare: Zia Marilena che ancora aspettava il colonnello, Zia Annetta coi cardellini fuori dall'uscio, Zia Sannina la madre di Rò, nonna Virginia, il suo battipanni, mamma, e persino la Pentax di A.C., appostata alla finestra del piano di sù per vedere, prima o poi, qualcosa che agli altri non fosse dato di  vedere, nel Giardino delle Lumache.

lunedì 24 novembre 2008

Non fosse stato per la spatola di Ciccittu, che chiudeva la porta a Dalia Maria.


Al funerale A.C. ci era arrivato in macchina, con Tatano.

Virginia zoppicando, insieme alla madre di Rò.

 Dalia Maria se ne andava come una regina.

 Il corteo partiva dalla piazza, percorreva tutta la via principale per arrivare fino quasi alla stazione, poi si dirigeva verso gli uliveti e le vigne, che erano lì per far compagnia ai morti.

Il capostazione aveva chiesto permesso e affidato il comando a Giustina la casellante; Santini non visitò Zio Luigi Canedda, che aveva la tosse.

Percopo era già al cimitero, con gli zoccoli della domenica e dei fiori in mano. Qualcuno rise.

Qualcun altro sputò per terra.

Rocco Berdui tratteneva a stento la moglie, che si strappava i capelli, cercandovi sotto la vita di Dalia Maria, con gli altri figli rotti, ai suoi piedi.

Tre o quattro ragazzi ridevano di nascosto.

Tommaso parlava all’orecchio di A.C., che iniziò a fotografare tutto, da lontano, piegando le ginocchia.

Dalla finestra vidi Dalia Maria che lasciava la piazza, e pensavo che ora

non l’avrei rivista mai più,

e che chissà se si sentiva sola  e dispiaceva anche a lei.

Rocco Berdui tratteneva a stento la moglie, che si strappava i capelli, cercandovi sotto la vita di Dalia Maria, con gli altri figli rotti, ai suoi piedi.

 A.C. scattava, da sotto il suo borsalino, e scattava.

Non sudava mai,

non sbagliava mai.

 Al terzo scatto Rocco si voltò.

 Nonno lasciò piano la Pentax a pendere

dal collo.

 Tommaso li guardò entrambi, asciugando il sudore

sotto il cappello della divisa buona.

 I campanelli delle pecore sul monte

li avrebbero sentiti anche i morti

non fosse stato per la spatola di Ciccittu,

che chiudeva la porta a Dalia Maria.

giovedì 13 novembre 2008

Così disse il Dottor Santini a Tommaso, terminati gli accertamenti del caso.


Tommaso si sfiorò il volto col palmo della mano. Uhmmm. Barba lunga. E fra 20 minuti montava di servizio. Sentì tuonare e si affacciò alla finestra.  Da lì si vedeva la Via Seduta. Si voltò verso la porta, dove Alina gli stirava la giacca, sudando mentre cercava di non rovinargli le mostrine dorate. Lei non si accorse di essere osservata e lui, senza dir niente si voltò di nuovo verso la finestra.
Si erano conosciuti in continente, a Firenze. Perchè lei era di Firenze e lui, soldato. Poi la guerra era finita.

Le prime gocce iniziarono a bagnare il davanzale. Mentre Tommaso iniziava a radersi, Alina compose bene la giacca sullo schienale di una sedia e prese la camicia, per stirare anche quella. Ma prima sollevò lo sguardo e lo osservò.
La prima volta che lo vide, lui aiutava la gente  a tirar fuori i familiari dalle macerie. Aveva tutta la faccia sporca di calce. Sembrava un fantasma. Ma un fantasma bello, e generoso. Per questo lo seguì, dopo il bombardamento.

Il mare era brutto. Sul traghetto gli rubarono il corredo, e tutto il resto.
Ma aveva Tommmaso, e questo bastava.

La Via Seduta fu la prima cosa che vide del paese. Arrivarono di notte e dormirono su materassi nudi, coi soprabiti addosso. Quando si svegliarono era già giorno pieno. Alina aprì la finestra per fare entrare l'aria. Tommaso abbassò lo sguardo. Alina stette immobile guardando in strada,  contro la luce forte che entrava dalla finestra. Poi si voltò e guardò Tommaso, con lacrime mal trattenute.
"Se vuoi, ti riaccompagno a Firenze." disse Tommaso "Lo capisco."
Alina si asciugò il volto. "Bisogna comprare lenzuola." Disse, mentre si tirava sù le maniche della camicia.
Gli accarezzò il viso cercando di sorridergli, mentre usciva dalla stanza.  Tommaso allora si affacciò. Sulla Via Seduta le donne stavano sul selciato, con la schiena poggiata ai muri sconciati delle loro case povere nella via più povera del paese, sporche, pallide, febbricitanti. I bambini che stavano bene piangevano. Gli altri si guardavano la pancia vuota con gli occhi fissi. C'erano solo due vecchi e due uomini adulti sulla Via Seduta. Uno di loro sbatteva i denti forte. L'altro era il dottore. Tommaso lo salutò con un cenno del capo.

Ora guardava fuori dalla stessa finestra mentre si insaponava il volto per il contropelo.
Era iniziato il Diluvio  Universale.

L'acqua iniziò a scorrere per le strade larghe e in lieve pendenza. Da ogni stradina arrivava un torrente che si univa al fiume della Via Centrale, che scendeva fino a biforcarsi: un ramo verso la stazione, l'altro verso il cimitero.

Sul Monte Corbu, la diga del piccolo invaso che serviva per irrigare gli orti e le vigne della pianura, tracimò. Una gran massa d'acqua si riversò nel Rio Minore.
Fu allora che Dalia Maria, iniziò a viaggiare col fiume.
I suoi occhi vedevano le nuvole, o forse non le vedevano già più.

Così disse il Dottor Santini a Tommaso, terminati gli accertamenti del caso. 




mercoledì 12 novembre 2008

Dalia Maria viaggiando nel fiume


Quando la videro arrivare in piazza, credettero tutti di sognare. 
Lei era così,  in mezzo ai rami, al fango e all'immondizia portata dalle strade in piena. 
C'era un uccellino morto con tutte le piume inzuppate e le zampette contratte, un giornale fradicio con la foto di un papa in carica, cicche di sigarette, pacchetti di nazionali senza filtro, milioni di foglie cadute dagli olmi malati della piazza, ratti affogati e, in mezzo, una maglietta del Milan fradicia, sollevata appena,  beffarda, su uno dei suoi seni appena nati. Gli occhi di vetro, aperti, i calzoncini corti trasparenti, una scarpetta da calcio, in un piede, le dita stirate in avanti, nell'altro. I suoi capelli, come alghe, sparsi per il viso e sull'asfalto bagnato. Le labbra.


C'era odore di terra bagnata e aveva smesso di piovere.  

Finalmente.

Il sole li prese tutti a schiaffi per farli svegliare.

Augusto andò a chiamare i carabinieri.

martedì 11 novembre 2008

Il campanello risuonó per tutte le stanze della casa come le fitte di una pugnalata fredda e improvvisa.


Ad A.C. si fermó il boccone in bocca. Virginia respirò per un momento un'aria che non seppe di fango: Costanza! Si diresse a grossi passi traballanti verso il portone, attraversando il corridoio scuro. Al muro si susseguivano foto antiche e accartocciate per l'umidità, scattate da A.C. appena l'anno prima. Una mattonella dopo l'altra. Un tacco qui, il bastone lì. 
A.C. si pulì i baffetti col tovagliolo candido e profumato che gli era riservato. 
Il suo anello brillò ancora una volta mentre beveva, in piedi, l'ultimo goccio di bianco di cantina. Sentí le ciabatte di Virginia fermarsi davanti al portone. Poi si ripulì di nuovo i baffetti bianchi. Andó verso la TV, nel salotto. Una mattonella dopo l'altra. 
Il bastone qui, un tacco lì. Virginia afferrò il pomello del passante. Tirò forte. Costanz....

"Bu-buo-ongiorno signora Vi -iirginia, co--ome sta?"
"Percopo, cosa vuoi qui?"

Si sentiva odore di carogna.

"u-una ragazza bella t....tii-ira il pallone, Signora Virginia. Tira il pallone."
Percopo sudava. I suoi occhietti sornioni stavolta erano seri, quasi spaventati.

Almeno così mi parve quando lo vidi al girare l'angolo di casa. Quello di nonna quando ci vide non fu un sorriso semplice.

"Vattene via adesso Percopo. Sció, vai via. Vai dalla ragazza che tira il pallone, và."

Non avevo mai visto Percopo così. Si girò verso di noi "Ciao Costanza" fece con la mano. Poi si allontanó con le spalle basse, coi suoi zoccoli del Dottor Sholl's che lo precedevano di un passo o due. 

La serranda di ferro del garage sferragliava per le zampate di Lola, che si era accorta del nostro arrivo. 

Percopo si fermò davanti agli arbusti delle lumachine. Si sedette sul bordo sbeccato del marciapiede. Si portò le mani alla testa. E iniziò a piangere.

L'odore delle nuvole sapeva di pioggia in arrivo.

lunedì 1 settembre 2008

Sono Lola


Sono Lola la cagna sola. Non vado con nessuno perchè lei non vuole. Mi ama molto e ogni tanto mi fa uscire dal garage dove dormo di notte. Quando esco incontro lui, che ha 8 anni appena, e pantaloni corti, ma quando mi guarda negli occhi, sembra studiarne ogni singola pagliuzza. 

E mi accarezza spesso.  Tranne quando passa lei.

Anche lei ha 8 anni appena, ma la sa lunga, e quando inizio ad abbaiare per farle paura lei guarda subito verso di lui, implorante, e allora lui cambia: “Lola! Accuccia! Lola! Guai! Accuccia!” Io mi volto, smettendo di abbaiare, lo guardo, cercando il compenso per il mio silenzio in un suo sguardo, ma quello sguardo è per lei ora. Per me, una guardatina rapida, per vedere se conservo l’ordine. E mi viene quella fitta nel petto.

Quanti figli si possono perdere prima di morire di crepacuore? 

giovedì 7 agosto 2008

SOGNO NUMERO 2


I miei piedi si riempiono di spine. Cammino con dei sandali di gomma bianco-trasparente. Gli sterpi suonano come in chiesa.La faccia mi brucia. La luce mi costringe a chiudere gli occhi. Non distinguo il contorno delle cose, se non guardo per terra.

Dò un calcio a una pietra grande. Una specie di lucertola esce da lì sotto veloce, nera, brillante e viscida.Poi un’altra, e un’altra. Se ne forma una fila, di lucertole nere senza zampe, che scorrono come un rigagnolo e fanno rumore d’acqua. Ne seguo il corso. Attraverso un bosco di fichi, poi un canneto. Le pannocchie dei giunchi splendono in controluce di riflessi dorati. Davanti a me, in lontananza, una casa semidiroccata, di cantoni bianchi di calce, tutti sbeccati. La porta, scura come la pece, incorniciata da un grosso ramo di fico. Fra me e la casa, una foresta di cardi viola e lilla, sullo sfondo di un’erba quasi arancione. Ombre lunghe, ormai.Inizio a camminare di nuovo, verso la casa, adesso. Incrociano la mia traiettoria voli di cavallette dalle ali color pesca e turchese, con  una striscia nera di velluto. Mi fanno vento, passando.

Un esserino anziano anziano, in pantaloni beige e canottiera bianca. Una testa di capelli biondi biondi quasi bianchi. Emerge dall’ombra pece della porta, alla luce del tramonto.

I miei occhi si riempiono di spine. Non posso tornare indietro. Un mare di lucertole nere alle mie spalle, tempestoso. I miei occhi si riempiono di luce. Mi  sveglio.

Babbo.

mercoledì 9 luglio 2008

Un niente, uno scintillìo, che poveva essere l’occhio di una vecchia, vestita di nero, o il bagliore di un grano del suo rosario.






Intanto, raschiavamo il fondo delle valigie sull’asfalto, salendo verso la chiesa. Mi voltavo di tanto in tanto, con gli occhi bruciati dal sudore, per vedere se la stazione si allontanava abbastanza in fretta. La tenda di strisce di plastica colorata ondeggiava come se qualcuno l’avesse appena attraversata, e non era vero mai.

Ci sfilavano affianco le finestre, una dietro l’altra. Le persiane, a strisce verdi e buio, nascondevano sospiri trattenuti e occhi come periscopi. Ogni tanto ti sembrava di intravedere un niente, uno scintillìo, che poveva essere l’occhio di una vecchia, vestita di nero, o il bagliore di un grano del suo rosario.

Ai muri delle case, poster che sembravano non essere mai stati nuovi e appena messi, ma solo e da sempre vecchi, sparati dal sole, stracciati, a strati, l’uno sull’altro, a comporre poster sempre nuovi, collage: circo Ba../vota.. /Birr..Ichnus../si ringraz.../trigesim..../Pupo in concert.....

Non c’era rumore di uccelli, nessuna automobile in movimento. Niente vento. Solo, lontano, il vago rumore dell’acqua che, se ti concentravi,  scendeva nelle vasche del lavatoio comunale o in quella dell’abbeveratoio, o che scorreva come un rigagnolo nel fiume quasi in secca, che chissà perchè lo chiamavano “Su-ma-ttó-ne”, e un giorno l’avrei capito.

Solo quel rumore rinfrescava quel sole cattivo, mentre le cose si muovevano in un sogno bollente, galleggiando sopra l’asfalto, che non era duro, a quell’ora.

Eravamo in tre. Mia mamma, mia sorella, e me, che è sbagliato, ma suona meglio col tre.

giovedì 3 luglio 2008

A.C. ed il pane quotidiano.


Il Cavaliere si sedette quel giorno, come mille altri, a mezzodí, alla tavola apparecchiata solo per lui. Versó il vino, un bicchiere, bianco. Prese il suo coltello, una piccola “pattadese” col manico di corno. Sollevó la forchetta dal tovagliolo candido, fece scattare a serramanico entrambi gli avambracci, di niente, di quel tanto appena che gli consentisse di far arretrare le maniche della giacca solo quel tanto che gli evitava di sporcarsele col bordo del piatto.

Con uno scintillío improvviso, nel grosso anello d’oro, le sue iniziali: A.C.

Avanti Cristo.

Inizió a mangiare.

La luce della finestra che dava sulla strada, penetrava la bottiglia del vino rendendola fosforescente.

In quel momento entró Virginia, zoppicando, nella cucina.

I suoi passi facevano rumore di legno

bello-e caldo-e stagionato. Come i mestoli che usava per fare il sugo.

Il masticare di A.C. faceva rumore di passi nel fango.

 

Il campanello risuonó per tutte le stanze della casa come le fitte di una pugnalata fredda e improvvisa.

sabato 14 giugno 2008

SOGNO NUMERO UNO


Adulto.
Molto caldo.
Tutto sudato.
Appena arrivato, in macchina.
Cammino verso casa di nonno, sul marciapiede.
S’apre la porta di casa di Rò, dall’altra parte della strada.
Esce Rò, sul balcone, fra i gerani, con le sorelle.
Chì è adulta. Abbronzata.
La pelle delle gambe brillante, tesa, scoperta da una minigonna anni 70’.
I capelli ricci, alti,...un cespuglio, come le capigliature delle ragazze nere a Woodstock. Maglietta a strisce.
“Ciao Mà...”
Come non mi vedesse da un paio d’ore appena.
Parlo.
“Dove andate?”
Frà è più piccola. Sta dietro, mezzo nascosta. I capelli, un pò crespi, si allungano sulla spalla sinistra, cadendo come un’onda lunga, decorati da meches dorate, un pò kitch.
Un occhio solo spunta per dirmi.
“Dobbiamo controllare il recinto.”
Chì e Rò indicano la collina, Frà è immobile. Mi fissa curiosa e inquieta.
Una campagna secca giallastra. Macchie scure raccontano incendi recenti. Un recinto di filo spinato, arrugginito e bucato da tutte le parti.
Come un vecchio collant.
Parlo.
“Le case della cooperativa...dove sono finite?”
Sorridono.
Nella strada, dietro di me, arriva un cane.
Biancastro, marrón, magro, fradicio, macilento.
Cammina a fatica, trascinando le zampe posteriori.
Mi riconosce. Mi mette le zampe addosso, come può. Ansima. Emozionato.
Ma è orrendo, gli manca un occhio.
L’altro, quasi chiuso, implora.
Il muso in putrefazione. Sdentato, sbava. Cerco di allontanarlo.
“! Vattene FULL! Vai VIA!”
“Sciò! Vattene! Vattene via!
(inizio a piangere come un bambino)
Frà, Chì, ed ora anche Rò, mi danno le spalle, si allontanano.
Camminano lente verso la collina, controllano i buchi della recinzione, vi passano attraverso, proseguono, senza voltarsi.
Ognuna per conto suo.
Le vedo liquide.
Mi sveglio.

Adulto.
Molto caldo.
Tutto sudato.
Ansimo.
Mi sveglio.

Povero Full,
lui no.

giovedì 12 giugno 2008

Odore di catrame, pietra e legno riscaldato.



Ma-la-sòr-te-ni-è-dda, 
Ti-li-gù-gu, 
Ti-ni-a-nò, 
Gi-ù-à, 
Rò:

così suonava, tutto, una volta scesi dal treno.

I contorni delle cose danzando con le cavallette.


mercoledì 11 giugno 2008

Tutúf ciutún tutumtutúm




Tutúf  ciutún tutumtutúm
Tutúf  ciutún tutumtutúm
Tutúf  ciutún tutumtutúm
Ciutúf
Tum
Tum
Tuiiiiiiiiiiiiiiiiii  mmm

Ffffffffffffffffffffffffffffffffffffffffffffff

domenica 8 giugno 2008

Quel sé che non esisteva, se non nel soggetto del suo continuo fotografare.



Cosa faceva quel giorno,  mio nonno, su quella stradaccia bianca di sassi appuntiti e cunette bruciate, con l’odore delle lumache abbrustolite nelle narici? 

La fotografava forse, negli alberi, nel campanile, nei tetti, negli altri, La Vita.

Camminava, lento, quasi a zig zag, poi accelerava, intermittente, si fermava di scatto,  con la sua sciarpa di seta, la sua brillantina, il borsalino calato sul volto e la Pentax in mano, perduto in quel che non esisteva, se non nel soggetto del suo continuo fotografare.



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