Adesso che aveva sul comodino quella scarpetta da calciatore tutta rinsecchita Tommaso non sapeva che cosa fare.
venerdì 3 aprile 2009
La cicatrice di luce inizió a spegnersi sul volto di Zia Ninetta
Adesso che aveva sul comodino quella scarpetta da calciatore tutta rinsecchita Tommaso non sapeva che cosa fare.
giovedì 19 marzo 2009
La guerra
sabato 28 febbraio 2009
Rocco Berdui lasciò cadere le monete ad una ad una perchè tutti sentissero che stava pagando.
Nella bottega di Gesulina le tre signore continuarono a bofonchiare chissà che mentre me ne tornavo a casa di A.C. con il pane e la mortadella per i panini.
mercoledì 24 dicembre 2008
Il Natale di Celestina
Coi suoi occhietti acquamarina (perchè per questo la chiamavano Celestina, chè il suo nome vero era Gesuina) guardò verso le povere foglie bucherellate della vite del pergolato.
Anche oggi il suo cesto delle lumache era arrivato quasi vuoto al Monte Rosso. Anche oggi avrebbe versato le poche lumache invendute dentro le reti per le patate e avrebbe appeso queste ultime ai grossi chiodi infissi nel muro della casa, tra la porta d’ingresso e quella dello sgabuzzino in cui conservava gli attrezzi per l’orto e tutti gli oggetti utili che trovava fra il paese, l’immondezzaio comunale e il passaggio a livello di Monte Leppere. Anche oggi tre o quattro “gioghittas” le sarebbero cadute, e lei non se ne sarebbe accorta, perchè a novant’anni l’udito non fa più il suo lavoro. Le tre o quattro amiche avrebbero trasportato pian piano le loro case ambulanti lungo quei tronchi contorti a spirale che iniziavano agli angoli della casa e al fianco delle due porte, e avrebbero raggiunto le evase degli ultimi anni, lassù, ad aspettare l’uva matura.
Lassù guardava, Zia Celestina, coi suoi occhi da falchetto, mentre le rughe della fronte si distendevano e scendeva il numero degli anni e il peso della rabbia. Lassù vedeva i mille bagliori che le bave delle lumache facevano per la luce della luna, confondersi con le stelle e le lucciole in un balletto di scintille e stelle cadenti.
E pensò che era giusto che quelle lumache se ne stessero lì per sempre, a mangiarsi le foglie di vite, perchè avevano saputo scappare e se l’erano meritata, la cena e la libertà.
A volte pensava di essere essa stessa una di loro e si chiedeva se era giusto catturarle e venderle ai pentoloni bollenti delle paesane. Poi però entrava in casa, disfava il mogno che le raccoglieva sommariamente i capelli fra il bianco e il paglierino, piegava i vestiti neri dell’ineluttabile e li riponeva accuratamente su una sedia di paglia. Poi contava i soldi, li raccoglieva in un rotolo che teneva legato con un filo di raffia, spingeva il letto contro il muro, sollevava la mattonella su cui poggiava la gamba zoppa del letto, estraeva da un grosso buco un sacco di plastica nera della spazzatura, e metteva il rotolo in compagnia, col resto della dote per Dalia Maria.
“ Che razza di freddo” Pensò... “Per essere Luglio...tittìa...”
La foto di Amedeo, l’addestratore di cavalli, l’uomo d’un pezzo, il baffo severo, il marito, il traditore, la fissava da dietro il fumo freddo che le usciva dalla bocca sdentata.
“Bonanotte Amedè” Disse con gli occhi.
E si mise a letto.
Ma non riusciva a dormire. Le scie delle lumache non erano più scintille di luna, ma fruscii, rumori, movimenti, gente, folletti, fate. Cercò di respingere l’idea e si fece un giro di rosario, poi un altro. Niente.
Allora
Zia Celestina
si alza dal letto.
Veste il cappotto della domenica di quando c’era Amedeo, saluta Chiccaffòra, e s’incammina verso il paese.
C’è un vento che taglia a fette le mani, e lei le nasconde sotto le ascelle. Si avvolge su muncaloru bene bene intorno alle guance, e aumenta il passo.
Qualche fiocco di neve inizia a scender giù.
Zia Celestina inizia a vedere le luci della chiesa e pensa “Lo dicevo, io.”
Dalla chiesa di Santa Maria le voci dei paesani arrivano nitide e argentine.
Es nadu es nadu es nadu...
Entra in chiesa Zia Celestina, si fa il segno della croce, si inginocchia al centro del corridoio di fronte all’altare, appena un istante, un accenno. Poi si siede accanto a Zia Peppina Masìa.
“Maleducata che non è altra. Non gliel’hanno insegnato a salutare?”
“E quello, Zuanne Banderi, dice che se n’era andato, e guardalo lì, tronfio e impettito, sfoggiando soldi in forma di cravatta di seta”
“Buonasera bà...ma nemmeno tu saluti?”
“Troppo me ne sto da sola, non mi riconoscono più” Pensa, mentre si guarda in torno e ci sono tutti, ma proprio tutti. “Però... quando vogliono lumachine già mi riconoscono...cani, che sono!”
Dalia Maria è con Enedina che guarda il Presepio. Celestina fruga nella tasca del grembiule. “Ci sono, eccoli lì, in fondo alla tasca. Cento lire per il prete e cento per Dalia Maria. Enedina non ne ha bisogno, è piccola ancora...poi si monta la testa se vede soldi...”
Un sorriso riscalda Celestina che pregusta il gesto.
Ma “la messa è finita” e “andate in pace”.
Tutti si incamminano lentamente verso l’uscita. Fuori nevica zucchero a velo.
Una lunga colonna percorre tutta la discesa della Via di Chiesa, in un silenzio appena modulato dai mormorii di questo e di quello.
Totore Arcobaleno spara i petardi per l’uscita dalla messa
scoppi che fanno silenzio.
Notte de chelu.
“Ma tutti insieme vanno?”
Celestina segue il corteo che sembra una processione. C’è anche Don Loddo che porta la croce.
Il tetto della stazione è già tutto bianco, là in fondo alla discesa.
Il capostazione sembra Amedeo, con quei baffoni. Fa la riverenza quando passa Celestina e la lascia passare.
Nella banchina ci sono tutti, quelli che ci sono, e quelli che non più.
“Ma perchè stanno tutti zitti...taddannu...che paese di gente strana è diventato...”
Allora, siccome tanto sono tutti alla stazione del treno, ormai, Celestina fa come sempre e si sporge un poco verso il mare, e così vede il pennacchio di fumo bianco.
“Mì...Arrivando sta.”
Il treno fischia silenzio fortissimo. Si ferma. Dentro è tutto illuminato. Ci sono Lidia, Giovanna e l’altra sorella Tatana, c’è il povero Don Zulueddu che se n’era andato in Argentina a cercare la figlia segreta, e c’è Pedro, lo spagnolo, che il camion se l’era portato via sulla strada per Su Mattone. Tutti, ci sono.
Zia Celestina si guarda intorno. Ora tutti le sorridono sulla banchina, mentre la neve gioca coi cappotti e le chiome degli alberi e il cappello rosso del capostazione.
“E che cosa sta succedendo?”
Zia Maria Dureddu, vestita a fiori e col sorriso splendente la guarda affettuosa “Vada Zia Celestì...” e accompagna la frase con un movimento del braccio.
“Vada, vada” Dice Don Loddo “ Vada in buon’ora”
Celestina si guarda intorno. Tutti le sorridono, o quasi. Qualcuno si commuove.
Intanto si fa giorno, piano piano.
“Ma cos’è che vogliono?”
“Guardi Zia Celestì”
E Celestina guarda verso la porta del treno, che si apre.
“Ih...che bello che sei, Amedè.”
E lui è lì, con un mazzetto di fiori e i denti bianchi di sotto i baffoni e la mano tesa che la invita a salire.
“Vada, Zia Celestì,...aiò...vada...”
Allora Celestina si solleva un poco la lunga gonna nera, si guarda un attimo indietro, sorride incredula, e sale, con la pelle del viso come la buccia di una pesca e gli occhi come gioielli.
La stazione si allontana dietro i fiocchi di neve che ora scendono fitti.
Sul tetto del treno le lumache di Zia Celestina piegano al vento le loro antenne.
Addìo Monte Rosso, addìo pergola delle viti, addio Chiccaffò...
le lumache di Zia Celestina se ne tornano insieme alle stelle.
venerdì 19 dicembre 2008
Andiamo a dormire Adelì.
"Tre, quattro ore prima che iniziasse a piovere."
giovedì 11 dicembre 2008
Così, mentre noi rincasavamo, quella notte fece visita a Santini.
Il povero grillo stava a pancia aperta fra le dita di Frà, che era seduta sul gradino più alto, della casa di Rò.
mercoledì 10 dicembre 2008
Virginia aveva finito il solitario.
Virginia faceva un solitario, sbattendo le carte al tavolo, contro quel nemico immaginario che aveva davanti per non mettersi a barare. S'incazzava anche, Virginia, con quel nemico immaginario.
"Adesso te ne stai in vacanza e poi vedi cosa fare."
Costanza faceva di sì con la testa e continuava a lavare i piatti.
"Tieni"
Virginia aveva finito il solitario.
Nelle mani di Costanza un rotolino di banconote si bagnava di detersivo.
“E questi?”
"Ho vinto. Adesso te ne stai in vacanza. Poi vedi cosa fare."
Seduto nella poltrona del Re, davanti alla sua televisione, A.C. sentì arrivare la moglie a rovinargli il Rischiatutto.
Chissà come veniva, la foto di Sabina Ciuffini.
Quella delle Kessler era perfetta.
Rinchiuse la macchina dentro la sua custodia.
La musica del Rischiatutto, a Costanza, faceva venire in mente dei pesci rossi,
e Stella che piangeva.
Sulle scale della casa di Rò
ci raccontavamo storie
per farci paura.
venerdì 5 dicembre 2008
lunedì 1 dicembre 2008
Al passaggio al livello,Giustina copriva il passaggio dell'ultimo treno che tornava dal mare.
venerdì 28 novembre 2008
IL GIARDINO DELLE LUMACHE
Era davanti alla casa di Rò, il giardino delle lumache. Si apriva su un marciapiede vecchio e disastrato, i cui bordi erano sollevati per forza dalle radici dell'indivia e della bietola selvatica che spuntavano persino nelle crepe dell'asfalto vecchio.
lunedì 24 novembre 2008
Non fosse stato per la spatola di Ciccittu, che chiudeva la porta a Dalia Maria.
Al funerale A.C. ci era arrivato in macchina, con Tatano.
Virginia zoppicando, insieme alla madre di Rò.
Dalia Maria se ne andava come una regina.
Il corteo partiva dalla piazza, percorreva tutta la via principale per arrivare fino quasi alla stazione, poi si dirigeva verso gli uliveti e le vigne, che erano lì per far compagnia ai morti.
Il capostazione aveva chiesto permesso e affidato il comando a Giustina la casellante; Santini non visitò Zio Luigi Canedda, che aveva la tosse.
Percopo era già al cimitero, con gli zoccoli della domenica e dei fiori in mano. Qualcuno rise.
Qualcun altro sputò per terra.
Rocco Berdui tratteneva a stento la moglie, che si strappava i capelli, cercandovi sotto la vita di Dalia Maria, con gli altri figli rotti, ai suoi piedi.
Tre o quattro ragazzi ridevano di nascosto.
Tommaso parlava all’orecchio di A.C., che iniziò a fotografare tutto, da lontano, piegando le ginocchia.
Dalla finestra vidi Dalia Maria che lasciava la piazza, e pensavo che ora
non l’avrei rivista mai più,
e che chissà se si sentiva sola e dispiaceva anche a lei.
Rocco Berdui tratteneva a stento la moglie, che si strappava i capelli, cercandovi sotto la vita di Dalia Maria, con gli altri figli rotti, ai suoi piedi.
A.C. scattava, da sotto il suo borsalino, e scattava.
Non sudava mai,
non sbagliava mai.
Al terzo scatto Rocco si voltò.
Nonno lasciò piano la Pentax a pendere
dal collo.
Tommaso li guardò entrambi, asciugando il sudore
sotto il cappello della divisa buona.
I campanelli delle pecore sul monte
li avrebbero sentiti anche i morti
non fosse stato per la spatola di Ciccittu,
giovedì 13 novembre 2008
Così disse il Dottor Santini a Tommaso, terminati gli accertamenti del caso.
Tommaso si sfiorò il volto col palmo della mano. Uhmmm. Barba lunga. E fra 20 minuti montava di servizio. Sentì tuonare e si affacciò alla finestra. Da lì si vedeva la Via Seduta. Si voltò verso la porta, dove Alina gli stirava la giacca, sudando mentre cercava di non rovinargli le mostrine dorate. Lei non si accorse di essere osservata e lui, senza dir niente si voltò di nuovo verso la finestra.
mercoledì 12 novembre 2008
Dalia Maria viaggiando nel fiume
Quando la videro arrivare in piazza, credettero tutti di sognare.
martedì 11 novembre 2008
Il campanello risuonó per tutte le stanze della casa come le fitte di una pugnalata fredda e improvvisa.
Ad A.C. si fermó il boccone in bocca. Virginia respirò per un momento un'aria che non seppe di fango: Costanza! Si diresse a grossi passi traballanti verso il portone, attraversando il corridoio scuro. Al muro si susseguivano foto antiche e accartocciate per l'umidità, scattate da A.C. appena l'anno prima. Una mattonella dopo l'altra. Un tacco qui, il bastone lì.
lunedì 1 settembre 2008
Sono Lola
Sono Lola la cagna sola. Non vado con nessuno perchè lei non vuole. Mi ama molto e ogni tanto mi fa uscire dal garage dove dormo di notte. Quando esco incontro lui, che ha 8 anni appena, e pantaloni corti, ma quando mi guarda negli occhi, sembra studiarne ogni singola pagliuzza.
E mi accarezza spesso. Tranne quando passa lei.
Anche lei ha 8 anni appena, ma la sa lunga, e quando inizio ad abbaiare per farle paura lei guarda subito verso di lui, implorante, e allora lui cambia: “Lola! Accuccia! Lola! Guai! Accuccia!” Io mi volto, smettendo di abbaiare, lo guardo, cercando il compenso per il mio silenzio in un suo sguardo, ma quello sguardo è per lei ora. Per me, una guardatina rapida, per vedere se conservo l’ordine. E mi viene quella fitta nel petto.
Quanti figli si possono perdere prima di morire di crepacuore?
giovedì 7 agosto 2008
SOGNO NUMERO 2
I miei piedi si riempiono di spine. Cammino con dei sandali di gomma bianco-trasparente. Gli sterpi suonano come in chiesa.La faccia mi brucia. La luce mi costringe a chiudere gli occhi. Non distinguo il contorno delle cose, se non guardo per terra.
Dò un calcio a una pietra grande. Una specie di lucertola esce da lì sotto veloce, nera, brillante e viscida.Poi un’altra, e un’altra. Se ne forma una fila, di lucertole nere senza zampe, che scorrono come un rigagnolo e fanno rumore d’acqua. Ne seguo il corso. Attraverso un bosco di fichi, poi un canneto. Le pannocchie dei giunchi splendono in controluce di riflessi dorati. Davanti a me, in lontananza, una casa semidiroccata, di cantoni bianchi di calce, tutti sbeccati. La porta, scura come la pece, incorniciata da un grosso ramo di fico. Fra me e la casa, una foresta di cardi viola e lilla, sullo sfondo di un’erba quasi arancione. Ombre lunghe, ormai.Inizio a camminare di nuovo, verso la casa, adesso. Incrociano la mia traiettoria voli di cavallette dalle ali color pesca e turchese, con una striscia nera di velluto. Mi fanno vento, passando.
Un esserino anziano anziano, in pantaloni beige e canottiera bianca. Una testa di capelli biondi biondi quasi bianchi. Emerge dall’ombra pece della porta, alla luce del tramonto.
I miei occhi si riempiono di spine. Non posso tornare indietro. Un mare di lucertole nere alle mie spalle, tempestoso. I miei occhi si riempiono di luce. Mi sveglio.
Babbo.
mercoledì 9 luglio 2008
Un niente, uno scintillìo, che poveva essere l’occhio di una vecchia, vestita di nero, o il bagliore di un grano del suo rosario.
Intanto, raschiavamo il fondo delle valigie sull’asfalto, salendo verso la chiesa. Mi voltavo di tanto in tanto, con gli occhi bruciati dal sudore, per vedere se la stazione si allontanava abbastanza in fretta. La tenda di strisce di plastica colorata ondeggiava come se qualcuno l’avesse appena attraversata, e non era vero mai.
Ci sfilavano affianco le finestre, una dietro l’altra. Le persiane, a strisce verdi e buio, nascondevano sospiri trattenuti e occhi come periscopi. Ogni tanto ti sembrava di intravedere un niente, uno scintillìo, che poveva essere l’occhio di una vecchia, vestita di nero, o il bagliore di un grano del suo rosario.
Ai muri delle case, poster che sembravano non essere mai stati nuovi e appena messi, ma solo e da sempre vecchi, sparati dal sole, stracciati, a strati, l’uno sull’altro, a comporre poster sempre nuovi, collage: circo Ba../vota.. /Birr..Ichnus../si ringraz.../trigesim..../Pupo in concert.....
Non c’era rumore di uccelli, nessuna automobile in movimento. Niente vento. Solo, lontano, il vago rumore dell’acqua che, se ti concentravi, scendeva nelle vasche del lavatoio comunale o in quella dell’abbeveratoio, o che scorreva come un rigagnolo nel fiume quasi in secca, che chissà perchè lo chiamavano “Su-ma-ttó-ne”, e un giorno l’avrei capito.
Solo quel rumore rinfrescava quel sole cattivo, mentre le cose si muovevano in un sogno bollente, galleggiando sopra l’asfalto, che non era duro, a quell’ora.
Eravamo in tre. Mia mamma, mia sorella, e me, che è sbagliato, ma suona meglio col tre.
giovedì 3 luglio 2008
A.C. ed il pane quotidiano.
Il Cavaliere si sedette quel giorno, come mille altri, a mezzodí, alla tavola apparecchiata solo per lui. Versó il vino, un bicchiere, bianco. Prese il suo coltello, una piccola “pattadese” col manico di corno. Sollevó la forchetta dal tovagliolo candido, fece scattare a serramanico entrambi gli avambracci, di niente, di quel tanto appena che gli consentisse di far arretrare le maniche della giacca solo quel tanto che gli evitava di sporcarsele col bordo del piatto.
Con uno scintillío improvviso, nel grosso anello d’oro, le sue iniziali: A.C.
Avanti Cristo.
Inizió a mangiare.
La luce della finestra che dava sulla strada, penetrava la bottiglia del vino rendendola fosforescente.
In quel momento entró Virginia, zoppicando, nella cucina.
I suoi passi facevano rumore di legno
bello-e caldo-e stagionato. Come i mestoli che usava per fare il sugo.
Il masticare di A.C. faceva rumore di passi nel fango.
Il campanello risuonó per tutte le stanze della casa come le fitte di una pugnalata fredda e improvvisa.
sabato 14 giugno 2008
SOGNO NUMERO UNO
Molto caldo.
Tutto sudato.
Appena arrivato, in macchina.
Cammino verso casa di nonno, sul marciapiede.
S’apre la porta di casa di Rò, dall’altra parte della strada.
Esce Rò, sul balcone, fra i gerani, con le sorelle.
Chì è adulta. Abbronzata.
La pelle delle gambe brillante, tesa, scoperta da una minigonna anni 70’.
I capelli ricci, alti,...un cespuglio, come le capigliature delle ragazze nere a Woodstock. Maglietta a strisce.
“Ciao Mà...”
Come non mi vedesse da un paio d’ore appena.
Parlo.
“Dove andate?”
Frà è più piccola. Sta dietro, mezzo nascosta. I capelli, un pò crespi, si allungano sulla spalla sinistra, cadendo come un’onda lunga, decorati da meches dorate, un pò kitch.
Un occhio solo spunta per dirmi.
“Dobbiamo controllare il recinto.”
Chì e Rò indicano la collina, Frà è immobile. Mi fissa curiosa e inquieta.
Una campagna secca giallastra. Macchie scure raccontano incendi recenti. Un recinto di filo spinato, arrugginito e bucato da tutte le parti.
Come un vecchio collant.
Parlo.
“Le case della cooperativa...dove sono finite?”
Sorridono.
Nella strada, dietro di me, arriva un cane.
Biancastro, marrón, magro, fradicio, macilento.
Cammina a fatica, trascinando le zampe posteriori.
Mi riconosce. Mi mette le zampe addosso, come può. Ansima. Emozionato.
Ma è orrendo, gli manca un occhio.
L’altro, quasi chiuso, implora.
Il muso in putrefazione. Sdentato, sbava. Cerco di allontanarlo.
“! Vattene FULL! Vai VIA!”
“Sciò! Vattene! Vattene via!
(inizio a piangere come un bambino)
Frà, Chì, ed ora anche Rò, mi danno le spalle, si allontanano.
Camminano lente verso la collina, controllano i buchi della recinzione, vi passano attraverso, proseguono, senza voltarsi.
Ognuna per conto suo.
Le vedo liquide.
Mi sveglio.
Adulto.
Molto caldo.
Tutto sudato.
Ansimo.
Povero Full,
lui no.
giovedì 12 giugno 2008
Odore di catrame, pietra e legno riscaldato.
mercoledì 11 giugno 2008
Tutúf ciutún tutumtutúm
domenica 8 giugno 2008
Quel sé che non esisteva, se non nel soggetto del suo continuo fotografare.
Cosa faceva quel giorno, mio nonno, su quella stradaccia bianca di sassi appuntiti e cunette bruciate, con l’odore delle lumache abbrustolite nelle narici?
La fotografava forse, negli alberi, nel campanile, nei tetti, negli altri, La Vita.
Camminava, lento, quasi a zig zag, poi accelerava, intermittente, si fermava di scatto, con la sua sciarpa di seta, la sua brillantina, il borsalino calato sul volto e la Pentax in mano, perduto in quel sé che non esisteva, se non nel soggetto del suo continuo fotografare.